Non capita spesso di godere dei benefici offerti da un centro benessere mentre si osservano dei resti antichi di grande importanza. Accade ad Assisi, la cittadina sul versante nord-occidentale del monte Subasio, nel settore settentrionale della Valle Umbria, ad una trentina di chilometri da Perugia. Il gradevole relax, sollievo per lo spirito e il corpo, è offerto dalla Spa-museo al piano inferiore di un lussuoso hotel a cinque stelle. L’ex monastero di Santa Caterina, profondamente restaurato. Oltre che ridefinito negli spazi interni. I resti antichi sono i sei pilastri in blocchi di calcare locale che costituiscono quanto rimane dell’anfiteatro del I secolo d. C. di Asisium, il centro umbro legato a Roma già nel III secolo a. C. Un monumento tra i più significativi dell’impianto romano. Conservato soltanto in minima parte. Inserito all’interno di strutture moderne. Come accade non di rado a tanti monumenti dell’antichità. Esempi differenti di riutilizzo. I setti del teatro di Bevagna trasformati in locande, la cisterna a Genzano di Roma, divenuta sala da pranzo di un ristorante locale. Come l’acquedotto romano di Lanuvium in provincia di Roma, nel quale corrono le tubature di quello moderno. Tanto per rimanere ai casi meno noti.

La questione è sempre la medesima. Cioè fino a che punto il riutilizzo è lecito. Qualè il limite oltre il quale la rigenerazione del monumento di turno si trasforma in un sacrilegio. Certo il pensiero che per osservare quel che resta dell’anfiteatro di Asisium sia necessario immergersi in una vasca di acqua calda di un lussuoso hotel non solletica. Non gratifica lo studioso come, forse, lo stesso cultore della materia. Così sembra un’offesa alla passata grandezza dover entrare in un ristorante di Genzano di Roma per poter rilevare le caratteristiche di un enorme serbatoio d’acqua che forniva l’approvvigionamento ad una villa presente nelle vicinanze. I vapori dell’acqua in un caso e gli odori della cucina nell’altro sembrano essere in netto contrasto con la sacralità delle antiche strutture. Obiezioni legittime, forse. Se non esistessero tanti, tantissimi, altri esempi. Di monumenti che sono in rovina. A volte proprio per l’impossibilità, oltre che l’incapacità, a renderli parte della modernità. A farne parte, viva, delle città e paesi del presente. E’ anche per questo motivo che i resti imponenti sotto il teatro Marchetti, a Camerino, rimangono muti. Così come le cisterne sotto la Cattedrale di San Clemente, a Velletri. Oppure come i resti dell’acquedotto al di sotto dell’Istituto Nautico A. Elia, ad Ancona. Strutture scoperte in occasione dei lavori per la realizzazione di edifici successivi. Conservate, quasi ob torto collo, al di sotto dei piani di calpestio di quegli edifici. Ma sostanzialmente obliterati. Senza contare la casistica, ancora più ricca, nella quale rientrano i monumenti in abbandono che non hanno alcuna relazione topografica con edifici moderni. Cisterne, templi, tombe, edifici termali, acquedotti, domus, villae. Una moltitudine di fantasmi che aleggiano per i nostri territori, all’interno e all’esterno dei nostri centri piccoli e grandi.

Nella stagione nella quale i sacrifici rischiano di soffocare definitivamente gran parte del patrimonio immobiliare italiano artistico-storico-archeologico, varrebbe la pena di guardare con meno altezzosa protervia i tentativi di trovare soluzioni alternative. Soluzioni che forse potrebbero non soddisfare in pieno le canoniche regole della corretta musealizzazione, senza tradire quelle della conservazione. Ma che avrebbero il merito di regalare una speranza di vita a quel che altrimenti non lo avrebbe. Anche per i tanti errori del passato.

Meglio quindi, forse,i vapori dell’acqua, ad Assisi, e gli odori della cucina, a Genzano di Roma, che la rovina polverosa e decadente.

Articolo Precedente

Après Mai: qualcosa di amaro nell’aria del ’68

next
Articolo Successivo

Manoscritti/10: “La minchia dell’angelo” (Esteban Espiga)

next