Giorni fa parlavo con un amico che stimo moltissimo, impegnato in prima linea nella lotta alla mafia e alle degenerazioni del potere, riguardo il difficile momento storico che stiamo attraversando. Si parlava dello sconforto che prende quando ci si accorge di essere soli in certe battaglie, osteggiati a volte per puro calcolo e interesse personale e a volte per l’incompetenza di chi, di principio, starebbe anche dalla tua stessa parte della barricata. 
Ho sempre pensato che la lotta per ottenere verità e, quindi, giustizia fosse l’unica strada percorribile e, come spesso dice Salvatore Borsellino durante i suoi incontri, ho messo in conto che potrei anche non vedere con i miei occhi i frutti del mio lavoro, perché siamo tutti consapevoli di quanto questa strada sia lunga e con tanti “passaggi per il via”, proprio come a Monopoli. Ma per me è sempre stato fondamentale il credere di star lottando per una vittoria *certa*. Forse godibile dai miei pronipoti o dai pronipoti dei miei pronipoti, ma pur sempre certa e questa mia credenza non l’ho mai messa in discussione, essendo l’unica ragione che, in certi momenti bui, mi spinge ad andare avanti.
Poi il mio amico mi dice questa frase: “sai, io non ho la necessità di credere che si raggiunga l’Eden per impegnarmi a fare la cosa giusta. Mi basta sapere di star facendo la cosa giusta.”
Devo confessare che mi ha un po’ sconvolta e lì per lì ho mi sono quasi rifiutata di credergli. Non tanto per me, ma per lui, per come ho immaginato si potesse sentire senza la certezza di star sputando sangue in questa vita per far percorrere all’umanità un altro pezzettino di strada verso la meta finale, che si chiami Eden o giustizia ed uguaglianza tra gli uomini. 
Alla fine ho dovuto accettare questa sua filosofia che, anche se più triste, forse è molto più attinente alla realtà della mia e mi sono resa conto di quanto coraggio e quanta forza di volontà ci vogliano, molto più di quanti ne abbia io, per camminare senza questa certezza. Mi è venuta in mente una lezione di filosofia del liceo, nella quale si contestava l’esistenza di Dio e si evidenziava come spesso il cattolico si comporta in modo giusto ed etico per via del successivo “premio” divino del paradiso a differenza dell’ateo che, quando si comporta moralmente (avverbio che dovrebbe riacquistare il suo valore originale, soprattutto nel nostro Paese), lo fa in modo disinteressato. 
Ho riflettuto per giorni sull’argomento e sono arrivata alla conclusione che, anche se la ragione mi fa dubitare oggettivamente della possibilità di raggiungere – anche se in un futuro lontano – l'”Eden”, il mio istinto, il mio cuore e forse anche la mia debolezza non possono farmi smettere di credere che tutta la nostra fatica, le cicatrici, il sangue, il sudore e, soprattutto, i nostri sogni servano per arrivare a quella meta finale, ad un mondo più giusto, anche non dovessimo essere là per vederlo. E, ho pensato, da oggi inizierò a crederci anche per il mio amico.
di Federica Fabbretti
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