Da un anno la Costa Concordia è lì, adagiata sul fianco destro, a poche decine di metri dall’ingresso del porto del Giglio. L’urto della nave sulle Scole è stato fatale ed è costato la vita a 32 persone. Ricordando che c’è un processo in corso, di cui rispettosamente attendiamo l’esito, ci permettiamo di proporre qualche considerazione.

La prima è che un incidente di questo tipo era prevedibile e che Greenpeace non è stata l’unica a lanciare un allarme sull’affollamento delle rotte marittime nel Santuario dei Cetacei, in teoria un’area marina internazionale protetta situata tra nord della Sardegna, Corsica, Toscana e Liguria, fin quasi a Tolone, in Francia.

Regolamentazioni minime sulle rotte consentite e quelle proibite sarebbero il minimo sindacale. Invece ci si è limitati a proibire le gare off shore. E con non poca difficoltà.

C’è stato bisogno di questo disastro per avere – dopo un lungo conflitto tra Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Mare e Ministero dei Trasporti – le prime regole sui trasporti marittimi nel Santuario. Siamo arrivati così al famoso decreto “anti inchini”, che prescrive anche norme per evitare la dispersione in mare di carichi pericolosi trasportati nel Santuario: che è quello che è successo vicino all’Isola di Gorgona un mese prima del naufragio del Giglio, quando un traghetto della Grimaldi ha “perso” in mare quasi 200 barili di materiale tossico.

Il decreto è servito a ben poco: il primo giugno 2012 un cargo turco, la Mersa2, si arenava sugli scogli di Capo S. Andrea all’Isola d’Elba. E il 9 dicembre scorso un altro traghetto della Grimaldi al largo di Palermo (dopo aver attraversato il Santuario dei Cetacei) perdeva una decina di tir e semirimorchi. Che fine abbiano fatto, di che si trattava, non lo sappiamo. Greenpeace ha subito chiesto lumi sulle conseguenze ambientali al Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Mare, ma dopo oltre un mese non ha ricevuto alcuna risposta.

Se da un lato, quindi, un’altra Costa Concordia è possibile, resta il fatto che ancora al Giglio non si possono dormire sonni tranquilli. Rimuovere una nave di 300 metri e 112 mila tonnellate è operazione complessa e servono tutte le garanzie del caso perché nel suo interno ci sono ignoti (a noi comuni mortali) quantitativi di sostanze pericolose di cui un sommario elenco si trova nel rapporto di Greenpeace “Toxic Costa” del febbraio scorso.

Infine, l’ultima occasione persa della Costa Concordia è quella della trasparenza e della partecipazione. Da oltre un anno attendiamo il “tavolo tecnico” sui problemi del Santuario che ci hanno promesso i Presidenti delle regioni Toscana e Liguria e da 4 mesi aspettiamo il pieno coinvolgimento che ci era stato assicurato dall’Osservatorio di monitoraggio per il Recupero della nave Concordia, cui avremmo parecchio da chiedere.

di Alessandro Giannì, direttore delle Campagne di Greenpeace Italia

(Foto Lapresse)

Articolo Precedente

Un’agenda contro lo spreco alimentare

next
Articolo Successivo

Ma cosa si nasconde dietro le rotonde stradali?

next