Giovedì 10 gennaio, giorno sancito dalla Costituzione della Repubblica Bolivariana per il giuramento e la ‘toma de posesión’ del presidente eletto, il ‘chavismo senza Chávez’ ha vissuto il suo debutto su scala internazionale. L’ha vissuto, come predisposto dalle forze di governo, sovrapponendo l’ubiquità all’assenza, l’eternità alla tirannia del tempo. ‘Yo soy Chávez’, hanno mille volte gridato gli uomini e le donne che – in una marcia frutto al tempo stesso d’una spontanea adorazione popolare e d’una rigorosa coreografia di Stato – hanno sfilato per ore lungo la Avenida Urdaneta. Tutti siamo Chávez. E tutti – noi, il popolo del Venezuela – prendiamo, nel nome d’un Chávez eternizzato dalla sua onnipresenza, possesso della presidenza della Nazione…

Così doveva essere e così è stato. Appena sotto la crosta del cerimoniale, tuttavia, a dominare la scena è stata l’attesa. L’attesa surreale ed assurda di qualcuno che non si sa – né si può sapere – se e quando verrà. Non v’è dubbio: fosse stata un’opera teatrale, questa ‘grande prima’ del ‘chavismo senza Chávez’ avrebbe avuto come titolo – Samuel Beckett permettendo – ‘Aspettando Hugodot’…

Il giorno prima di questa ‘non-inaugurazione’, con un atto tanto prevedibile quanto sfacciato, il Tribunale Supremo di Giustizia (TSJ), aveva stabilito – in piena sintonia con quanto anticipato dai vertici del PSUV, il partito-Stato creato da Chávez – che tutti gli articoli della Costituzione (il 231, il 233, il 234 e il 235) che fanno esplicito riferimento alla cerimonia di giuramento, nonché all’assenza temporanea o assoluta del presidente eletto, non hanno, nel caso specifico, valore alcuno. Essendo Hugo Chávez un presidente rieletto – affermava in sintesi la sentenza del TSJ – la cerimonia di giuramento non è che una semplice formalità. Chávez è un presidente che, a tutti gli effetti in carica, si trova per il momento a Cuba, dove si è recato con regolare permesso dell’Assemblea Nazionale, per sottoporsi a cure urgenti. La sua non è né un’assenza temporanea, né un’assenza assoluta. È una sorta di licenza indefinita il cui termine a lui e soltanto a lui, spetta definire. Questo la Corte ha inappellabilmente deciso. E che nessuno s’azzardi – pena l’accusa di sovversione – a chiedere notizie sullo stato di salute del “comandante-presidente”, o a pretendere di sapere se ancora quest’ultimo possieda le capacità fisiche o mentali indispensabili per l’adempimento delle proprie funzioni.

Assurdo? Certo. Ed è proprio nell’intrinseca, perversa logica di questo ‘assurdo’ che il chavismo è cresciuto negli ultimi 14 anni. Il grande amore che, di questi tempi, le gerarchie chaviste vanno più che mai testimonando per la ‘migliore Costituzione del mondo’ – non c’è occasione, in effetti, in cui si presentino senza il ‘libretto blu’ tra le mani – è infatti il più incestuoso degli amori. O, se si preferisce, quello che più da vicino ricorda quanto a suo tempo ebbe a dire, in materia di diritto costituzionale e con molto machista protervia, un altro celebre caudillo latinoamericano, il brasiliano Getulio Vargas: “A costituicão è como a virgen. Foi feita para ser violada”- La Costituzione è come una vergine. È fatta per essere violata).

Raccontata telegraficamente (ma tornerò sull’argomento) la storia è questa. Hugo Chávez, l’indiscusso padre della Costituzione della Repubblica Bolivariana – approvata per referendum nel dicembre del 1999 con oltre il 70 per cento dei voti – ha usato della sua creatura tutte le parti che servivano a rafforzare il potere esecutivo. Ed ha poi usato questo potere esecutivo per violentare, in pratica, tutto il resto. E se qualcuno, poi, desidera sapere quanto ‘indipendente’ il potere giuridico-costituzionale che, due giorni fa ha cancellato con un colpo di spugna quattro articoli della Carta Magna, eternizzando l’attesa del ritorno di Hugodot, può andarsi a rivedere le immagini dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2006, quando i giudici accolsero il presidente con una ‘standing ovation’, scandendo lo slogan “uh, ah, Chávez no se va’…

La vera novità emersa il 10 gennaio non sta però nella burla (scontatissima) della sentenza emanata dal TSJ. Sta nel fatto che, questa “indefinita attesa”, sancita nel nome del grande leader assente ma onnipresente, è in realtà in ovvio, stridente contrasto proprio con le indicazioni del capo ubiquo ed eterno. Nel suo ultimo intervento pubblico, prima di partire Cuba, Hugo Chávez era stato molto chiaro (chiaro, anzi, “come la luna piena”): “nel caso che dovessi io essere ‘inabilitato’-  e che non potendo io, per questo, iniziare il mio nuovo mandato venissero, come previsto dalla Costituzione, convocate nuove elezioni – vi chiedo di votare per Nicolás Maduro…”

La situazione è davvero chiara. Paradossale, ma chiara. Molto più lucido dei suoi cortigiani, Chávez aveva capito che molto meglio, per il futuro del chavismo, era affrontare subito, sull’onda dell’emozione per il suo personale calvario, il problema della sua assenza. Al contrario dei chavisti di lui più chavisti, Chávez aveva evidentemente visto – prima di entrare in un tunnel nel quale, forse, non uscirà – i pericoli di logoramento insiti in una lunga, surreale attesa d’un suo ritorno…

Molti oggi vanno chiedendosi come sarà il chavismo senza Chávez. Ogni risposta è, ovviamente, prematura. Ma una cosa, alla luce di questa ‘prima’,  già si può prevedere. Lasciato nelle mani dei sacerdoti del culto il chavismo sarà, probabilmente, ancor più autoritario. E, sicuramente, molto più stupido.

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