L’anno nuovo inizia maluccio per Sergio Marchionne. L’ultimo colpo è arrivato oggi dall’Europa, dove si comincia a parlare di “diritti minimi da garantire ai lavoratori”.  A Bruxelles, infatti, il presidente uscente dell’Eurogruppo, Jean Claude Juncker, in audizione alla Commissione Affari economici e monetari del Parlamento europeo, ha fatto notare come siano maturi i tempi per definire “un accordo per definire una base sui diritti minimi dei lavoratori”. Una sorta di contratto collettivo che includa un minimo salariale, ovvero tutto quel genere di cose che l’amministratore delegato della Fiat in questi anni si è impegnato a smontare in Italia, come Fabbrica Italia Pomigliano insegna.

Non va meglio negli amati Stati Uniti e la colpa, anche qui, è sempre di origine sindacale, anche se il centro dello scontro non è squisitamente di tipo lavorativo, ma economico. E non pesa poco sui piani del manager impegnato nella scalata finale alla Chrysler, anche se le cose non stanno filando come lui vorrebbe. L’ultimo colpo a rapporti sempre più tesi è arrivato ieri, dal fondo Veba, gestito dal sindacato dei lavoratori United Auto Workers Retiree Medical Benefits Trust. Quello cioè che è titolare del 41,5 per cento di Chrysler e che da mesi impegnato in un braccio di ferro con Marchionne sulla valutazione della quota della casa di Detroit che Fiat sta comprando. La sua ultima mossa è stata chiedere ufficialmente alla casa automobilistica americana di registrare alla Sec, la Consob Usa, una parte dei titoli (il 16,6%) in suo possesso.

Una richiesta  che, seppure non definitivamente, apre alla quotazione in Borsa, ma non come vorrebbe Marchionne. Tanto che si potrebbe tradurre con un “o ci paghi quanto vogliamo, oppure ci affidiamo alla valutazione del mercato”. Del resto l’opzione Borsa per una parte dei titoli Chrysler in mano al sindacato, era una di quelle previste dagli accordi siglati nel giugno 2009 al momento del salvataggio del gruppo americano, ma più che una strada intrapresa con decisione sembra un tentativo di fare pressione su Marchionne che appunto da mesi sta tirando sul prezzo. Sulla richiesta del sindacato, Fiat ha preso tempo precisando che “non è possibile assicurare che un registration statement sarà depositato presso la Sec, né che, se depositato, verrà effettuata un’offerta e in quali tempi”.

Anche perché al momento Fiat e Veba stanno attendendo il responso, previsto per marzo, del tribunale del Delaware relativamente all’interpretazione degli accordi del 2009 e più nel dettaglio alle metodologie di calcolo del prezzo per alcune opzioni di acquisto delle quote azionarie di Chrysler in mano al Lingotto, due delle quali già esercitate per una partecipazione pari al 6,64% del capitale Chrysler che porterebbe Fiat al 65% del gruppo americano. “La mossa di Veba provvederà a far maggiore chiarezza sul prezzo che Fiat dovrà pagare per accedere al resto delle azioni che sono fuori dalle opzioni di acquisto”, ha spiegato all’agenzia Bloomberg, l’analista Richard Hilgert della Morningstar Equity Research di Chicago.

Non a caso, infatti, la richiesta di registrazione alla Sec non ha riguardato la totalità dei titoli del Veba, ma solo la quota idealmente corrispondente alla totalità delle opzioni in mano alla Fiat. E del resto, alla luce delle valutazioni di mercato di Chrysler, come dar torto al sindacato statunitense? Gli americani hanno chiesto per l’esercizio della prima opzione, pari al 3,32%, ben 342 milioni contro i 140 milioni di dollari messi sul piatto dal Lingotto, che per la seconda tranche di pari entità ha ritoccato un poco la proposta portandola a 198 milioni. Ma i sindacati, si sa, alle volte sono degli ossi duri, e non ci stanno. Anche perché le loro stime non sono molto lontane da quelle degli analisti.

Per esempio, secondo le analisi riportate oggi dal Wall Street Journal, Chrysler, dalla quale Fiat è sempre più dipendente, potrebbe valere dai 9 ai 13,6 miliardi di dollari che corrisponde a un valore della contestata quota del 3,32% compreso tra 298 e 431 milioni di dollari. Una valutazione che alza ulteriormente la posta sul piatto dato – la differenza con l’offerta del Lingotto per il solo 6,64% di Chrysler è di una somma compresa tra 250 e 530 milioni – e contribuisce ad allungare ancora i tempi di una disputa che Marchionne vorrebbe invece chiudere rapidamente, per poter gestire in autonomia la sua gallina dalle uova d’oro americana. 

Articolo Precedente

Evasione Unicredit, Cassazione: “No all’impunità fiscale per le banche”

next
Articolo Successivo

Spread ancora in discesa, dopo l’asta arriva a ridosso dei 250 punti

next