Come ogni anno, a fine dicembre e inizio gennaio ho trascorso un po’ di giorni a Cortona, il mio paese. Purtroppo, le tre chiavette che avevo (Tim, Vodafone e Tre) funzionavano niente. Rieccomi, quindi, con i vostri ‘manoscritti nel cassetto‘. Buon anno e buona lettura. PS. Se qualcuno fosse dalle parti di Sermide (Mantova), sabato alle 18 in biblioteca presento il mio ultimo libro.
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L’uomo che vestiva di bianco

di Silvio Valota 

Un urlo feroce: “Spariamogli!”. Subito il trapestio dei piedi nudi sulle assi del ponte risuonò come una rullata di tamburi prima dell’esecuzione.
Marinai eccitati corsero dabbasso berciando come forsennati, in cerca delle armi da fuoco appoggiate alle rastrelliere. Affannati, le agguantarono sgomitando per la premura di tornare subito sul ponte, caricarle, mirare e… fuoco!
Qualche istante prima, un grido era echeggiato improvvisamente dalla coffa di mezzana: “Un albatro! A dritta di poppa!”.
Gli occhi di tutti i marinai di guardia si erano voltati in cerca del grande uccello.
Era ancora lontano. Sembrava dipinto nel cielo giallo, appoggiato sul nulla. Le ali maestose adagiate sull’aria infuocata e immobile. Si avvicinava lentamente alla nave, con un volo imperiale. Muoveva il capo solennemente, come per osservare meglio il grosso oggetto di legno, tela e corde che, sotto di lui, ondeggiava inerte sul mare piatto.
Una gragnola di pallettoni perforò il cielo di quel tardo pomeriggio. Mire approssimate, frettolose. L’albatro continuava a galleggiare sospeso, ed il suo volo lo avvicinò ancora alla Enkuizen. Poi prese a roteare tra l’alberatura, come uno spettatore morbosamente curioso. Dal castello di poppa, il capitano Jansen osservava in silenzio, contrariato per la violenza dei suoi marinai contro il pacifico volatile. In cuor suo li avrebbe fatti smettere subito. Ma pensò che poteva essere un diversivo, utile per dimenticare la bonaccia implacabile che li vedeva immobili sul mare a ovest di Giava ormai da sei giorni.
Un gabbiere, che da prua aveva assistito alla scena, scosse il capo ridendo: “Adesso lo sistemo io!”, gridò con tono di sfida rivolto agli altri che ancora armeggiavano con gli schioppi per ricaricare in fretta. Con la coda dell’occhio s’era accorto della presenza del capitano sul ponte, e ci teneva a fare bella figura.
Da un barile, accanto all’albero di trinchetto, prese un’aringa sotto sale. Afferrò una lunga lenza. Agganciò il pesce ad un grosso amo. Poi, con il filo addugliato da cui penzolava l’aringa luccicante, si slanciò su per le sartie del trinchetto, veloce come uno scoiattolo. Arrivato in coffa, iniziò a camminare in equilibrio sul pennone, diretto verso la varea.
La nave rollava appena, nella calma oleosa. Raggiunta l’estremità del pennone, il gabbiere lanciò la lenza con l’aringa in direzione dell’albatro. Dal ponte tutti guardavano, trattenendo il fiato per quegli equilibrismi. Qualcuno, che aveva già intuito, dava di gomito al vicino pregustando l’effetto finale. Jansen fingeva di mostrare nessun interesse alla vicenda ed ostentatamente voltava il capo in direzione opposta, come a tener d’occhio lo stato del mare.
L’uccello planò rapidamente per ghermire il pesciolino. Lo prese al volo e serrò il becco, ingordo.
L’amo gli s’infilzò nella gola, e subito l’albatro prese a sbattere disordinatamente le ali. Dal ponte, un coro entusiasta salì a celebrare la cattura del grande uccello, ed il gabbiere in bilico sul pennone strattonò orgogliosamente la lenza per attrarlo a sé.
Pochi istanti dopo, l’albatro dalle immense ali penzolava inerte dalle mani del marinaio, che lo mostrò ai compagni sul ponte, fiero della preda. Un paio, da basso, diedero fuoco agli schioppi con gli acciarini, per festeggiare l’esito della caccia sparando in mare. Poi il marinaio percorse a ritroso il pennone fino alla coffa, quasi danzando tra gli applausi ritmati di quelli di sotto. Infine, aiutandosi con la mano libera, si calò giù per le sartie fino al ponte.
Ma l’uccello non era ancora morto. Malgrado la punta dell’amo gli uscisse dal collo piumato, riuscì con un ultimo sforzo a sbattere ancora una volta le ali, ed il gabbiere, sorpreso, vacillò sulle griselle. Quelli di sotto risero a crepapelle e lo incitarono: “Uccidilo!”.
Lui, ormai prossimo alla coperta, saltò giù stringendo l’albatro per il collo, e quando fu saldamente in piedi, gli staccò di netto la testa con un colpo di coltello.
Gocce di sangue caldo schizzarono sulle spalle dei compagni che si erano avvicinati: volevano accarezzare le piume e tentavano di strapparle, ma senza riuscirci. Le penne fragili si spezzavano nelle loro mani rudi, e, come fiocchi di neve, cadevano tristemente sul ponte macchiato di rosso.
Del gioco si stancarono presto: in due afferrarono la carcassa dell’albatro e la gettarono fuori bordo, indifferenti all’inutile sacrificio. Il capitano, irritato, faticò a trattenersi: non aveva mai accettato la violenza gratuita, e lo disgustava la casualità vigliacca che aveva fatto convergere la rotta dell’albatro verso la sua nave immobile.
A galla sul mare liscio e pastoso, l’uccello restò per qualche istante a disegnare una triste croce, con le immense ali spalancate. Poi s’inabissò lentamente.
Comparvero le pinne di un paio di squali, che si avventarono sul banchetto inatteso. Un ribollire di schiuma. Acqua bianca soltanto per un attimo. Poi più nulla.
Dalla frisata, i marinai nemmeno guardarono l’esito di quella bravata. Non era stato che uno svago, la ricerca di un diversivo nella noia imperante della bonaccia implacabile.
“Cosa volete che vi dica, signor van Ruytenburgh?”, disse Jansen rivolto al passeggero che gli stava accanto. “Queste calme equatoriali sono devastanti. L’equipaggio deve pur inventarsi qualcosa per passare il tempo e divertirsi un po’…”. Aveva pronunciato queste parole allargando le braccia, come a dire: “Che ci possiamo fare?”. Ma dal tono traspariva una malinconica amarezza.
Van Ruytenburgh scosse il capo senza rispondere. Puzzavano di sudore, come tutti a bordo, ed il fiato era fetido. Il capitano, in cuor suo, non riusciva a dimenticare la violenza assassina che era costata la vita a quel meraviglioso uccello soltanto per divertimento. Domani, forse, sarebbe stato lo stesso con i delfini, e perché non con una piroga di selvaggi incuriositi?
La terra era lontana. Nessuna traccia di isole, di montagne. Nulla per tutto l’orizzonte. E la nave ferma. Immota.
“Siamo qui da sei giorni, signore, e possiamo soltanto aspettare”, disse il capitano parlando a bassa voce. “Non ho altro da fare che il punto a mezzogiorno, e sperare di avvistare un’increspatura che indichi l’arrivo del vento. Per la guardia di notte ho fatto accendere una candela: l’unica, nel buio, che può avvisare il nostromo se comincia a soffiare una brezza”.
“Però le vele sono tutte distese…”, considerò Willem van Ruytenburgh indicando la pesante velatura che sbatteva inutilmente. Un odore stantio di muffa aleggiava inesorabile. Le vele penzolavano come stracci vecchi appesi ad asciugare al sole. Ed il sole sembrava divertirsi a colpire con i suoi dardi cocenti quei dannati sperduti nell’infinito oceano. Batavia era ancora lontanissima. Il pericolo della sete ogni giorno più concreto.
Al tramonto cambiarono solamente i colori della tavolozza divina. La frisata sembrava una spugna zuppa dove era assai sgradevole appoggiare la mano. Dagli alberi gocciolavano rigagnoli di umidità fradicia, simili a bava di lumache.
“Vi andrebbe, signor van Ruytenburgh, di accompagnarmi nella mia cabina e berci insieme della malvasia?”, disse il capitano.
Il passeggero accettò di buon grado, compiaciuto dall’invito e incuriosito lo seguì.
Rapidi ordini impartiti a chi restava sul ponte, con l’impegno di avvisare immediatamente al minimo segnale di brezza. Poi i due scesero di sotto.
La cabina apparve subito buia, rispetto al chiarore diffuso che illuminava il crepuscolo. Il soffitto molto basso, con le assi dei paramezzali all’altezza della fronte. Le finestre a vetrata spalancate. Sull’acqua sottostante, guizzava il riflesso giallo del lampione di poppa appena acceso.
“Che ne dite, signore, di narrarmi qualcosa di voi? Naturalmente se non sono indiscreto, vero?”, disse il capitano aprendo una bottiglia e versando con generosità nei bicchieri. Bisognava ingannare il tempo eterno che li attendeva, snervante come quello dei giorni appena trascorsi. Una subdola sensazione di morte cominciava ad insinuarsi sempre più prossima, vischiosa come una tela di ragno.
“Cosa volete che vi racconti?”, chiese van Ruytenburgh colto alla sprovvista.
“Io conosco soltanto storie di mare: alla lunga si somigliano tutte”, disse il capitano. “Voi, invece, che provenite da Amsterdam: chissà quante cose avrete visto che meritano di esser rievocate, in questa serata silenziosa”. Guardò intorno, senza vedere, e aggiunse: “E’ per tornare all’aria della nostra terra, alla gente che ci aspetta… Per sentirci un po’ a casa. Il rumore delle strade, le chiacchiere della gente, i maneggi, i sogni…”.
Van Ruytenburgh sorseggiò la malvasia con voluttà. In fin dei conti, quest’uomo che gli stava di fronte mostrava una sensibilità che non si aspettava. O forse era soltanto capace di non nascondersi dietro al suo grado di signore assoluto a bordo. Il vino era un sollievo, piacevolmente dolce in quella giornata torrida che incollava alla pelle gli abiti, pesanti come corazze roventi. Alla fine respirò con forza, e quello fu l’unico vento nel giro di centinaia di miglia. “Potrei… sì, potrei raccontarvi ad esempio del motivo per cui mi trovo qui”.
“Ma bene!”, commentò Jansen, mostrandosi interessato. “E poi chissà mai che un ricordo ne trascini un altro… Non so immaginare dove potrebbe condurci questa vostra pazienza… Perché qui dobbiamo avere tanta pazienza, signor van Ruytenburgh. L’avete capito, vero?”.
“Oh, certo, capitano. Ed abbiamo anche molto tempo, non è così?”.
“Sì, penso proprio che questa maledetta bonaccia non ci lascerà tanto presto come vorremmo. Ma a Batavia ci arriveremo, anche se, temo, sarà presto necessario razionare l’acqua”.
Si versarono dell’altra malvasia.
“Allora, da dove volete cominciare?”, riprese Jansen.
Willem van Ruytenburgh annuì, come per raccogliere le idee e chiamare a raccolta i ricordi, i dettagli, ma anche i nomi, le situazioni, i luoghi.
Esordì in sordina, senza un’enfasi particolare, quasi non volesse disturbare con quelle storie sue, nonostante l’invito del capitano. Ma presto si rinfrancò, nel vederlo attento. Allora prese a divertirsi scegliendo le parole più appropriate. E intanto, sorprendentemente, recuperare quel passato lo aiutava a fare chiarezza su un periodo cruciale della sua vita.

Quarta di copertina

E’ il 1642. Una nave olandese diretta a Batavia è bloccata da giorni nell’oceano a causa di un’estenuante bonaccia. C’è il rischio di un ammutinamento, ed i rapporti a bordo sono molto tesi, tanto da sfociare in violenza dura. Il capitano tenta di tenere sotto controllo la situazione, ed intanto fa amicizia con un passeggero. Insieme ingannano il tempo raccontandosi del loro passato.
Ecco allora emergere una storia accaduta ad Amsterdam qualche tempo prima.
Ad un pittore, afflitto dai debiti e da pesanti problemi personali, è stata affidata la realizzazione di un’opera importante.
Si tratta di Rembrandt e del suo quadro più noto, la ‘Ronda di notte’.
E’ un lavoro impegnativo ma il tempo molto scarso, anche a causa della guerra contro gli Spagnoli.
Così Rembrandt medita di farsi aiutare dal proprio aiutante più promettente, Carel Fabritius.
Ma questi muore tragicamente lasciando il Maestro in gravi difficoltà.
C’è ancora una speranza, però: sta in quell’allievo che frequenta sotto mentite spoglie lo studio dell’artista, tenendo nascosta la propria identità.
Sarà proprio costui a proporsi come aiuto al maestro. Ma ad una condizione…
Lo sconosciuto tuttavia non si limita a questo, e lascia un’impronta che farà del quadro l’opera più amata dall’artista.
Un ritratto umano del Maestro, storie d’amore travolgenti, grandi amicizie, la guerra.
Ma anche una svolta nell’interpretazione del dipinto più discusso al mondo.
Sullo sfondo, una Amsterdam viva e pulsante in cui i personaggi raccontano un periodo unico per la città.

Biografia

Silvio Valota (Milano, 1949) per anni consulente finanziario e poi formatore comportamentale con una propria società.
Ha pubblicato diversi libri di cultura manageriale con Franco Angeli Editore, un romanzo ed un libro di racconti sulle storie del carcere di San Vittore.
Al momento ha in cantiere cinque nuovi romanzi.
Appassionato di pittura e di viaggi, è sposato con Katia e insieme, appena si può, partono verso nuove scoperte.
silvio.valota@fastwebnet.it

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