Il 12 novembre del 2011 Silvio Berlusconi si dimette da presidente del Consiglio. Sul tragitto che lo porta al Quirinale, dove rimetterà il mandato nelle mani del presidente della Repubblica, si assiepa una folla che gli grida “buffone”, “in galera” e che gli lancia monetine. Il disastro politico, umano e sociale di un quasi ventennio di potere berlusconiano viene esorcizzato attraverso un rito di massa cannibalesco, una reazione collettiva in linea con quelle che da sempre segnano i passaggi epocali della storia d’Italia.

Il 7 gennaio del 2013, quasi un anno e due mesi dopo, un Berlusconi raggiante, iper-inceronato, tronfio, si presenta negli studi di radio Rtl 102.5, si siede al microfono e annuncia di aver firmato nella notte un accordo con la Lega Nord per le prossime elezioni politiche di febbraio. Poi presenta il suo programma di governo, invade il campo, si espone su temi che notoriamente non gli appartengono per cultura politica, tra cui abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, limite di due legislature, apertura alle coppie di fatto, anche omosessuali, in un tentativo patetico ma accanito di rastrellare voti ovunque. Ma il suo vero proposito è tutto racchiuso in una sola frase, quella che pronuncia a un certo punto della diretta: “Sono disposto a tutto”.

Un anno e due mesi. Tanto basta in questo paese per rimettere in piedi un’immagine distrutta dagli scandali peggiori della storia repubblicana, per rifare il trucco a un passato di indicibili turpitudini, per rendere di nuovo presentabile al cospetto degli elettori di destra l’immagine di colui che con le sue politiche dissennate ha incenerito il futuro di almeno tre generazioni di italiani.

I sondaggisti dicono che non vincerà, ma da italiano, da democratico, non mi basta. Non mi basta sapere che non sarò più rappresentato all’estero dalla maschera di argilla di un intemperante miliardario. Non mi basta saperlo relegato su uno scranno del parlamento a guidare quella che, in ogni caso, sarà la maggiore forza di opposizione. In nessuna nazione civile due cittadini su dieci si dichiarerebbero disposti a dare fiducia a uno “s-pregiudicato illusionista” (come lo definì Di Pietro), diciamo pure che in nessun paese civile gli consentirebbero di ricandidarsi per l’ennesima volta (la sesta) a premier. Per questo, e per molto altro, il nostro è un sistema politico eternamente sospeso, colpevolmente monco. Quell’approdo che Aldo Moro definiva “la democrazia compiuta”, ossia una democrazia che ha la capacità di dotarsi di regole credibili e di rispettare l’esistenza di un confronto tra maggioranza e minoranza, è ancora – nel 2013 – una prospettiva irrealizzabile.

Non vincerà, dicono. Ma in ogni caso la candidatura di Berlusconi, oggi, a prescindere dal suo peso elettorale, rappresenta un problema grave di democrazia, è il sintomo più evidente della malattia genetica che affligge questo paese.

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