Leggo su Wikipedia: “Gonzo è un particolare stile di scrittura giornalistica, creato dallo scrittore e giornalista americano Hunter Stockton Thompson. Secondo tale stile, il giornalismo può essere veritiero senza dover essere rigidamente oggettivo. Preferisce curare più lo stile che la precisione e mira a descrivere le esperienze personali, le sensazioni, gli umori piuttosto che i fatti. Rappresenta uno sguardo diverso sulla realtà, teso a carpirne le sottili e intriganti manifestazioni, utile a concedere prospettive diverse a fatti e soggetti spesso cristallizzati e immobili nella loro descrizione pubblica.”

Niente da fare, la definizione non mi aiuta, non riesco a capire quale sia la differenza fra un “gonzo” e un qualsiasi giornalista “vero” che rischia la vita in mezzo a guerre civili, rivolte, rivoluzioni, catastrofi naturali. C’è davvero bisogno di questa etichetta per descrivere semplicemente chi fa bene una professione purtroppo sempre più surrogata? Ho forti dubbi.

Mi sono imbattuto nella definizione di giornalismo gonzo leggendo il libro Corpo a corpo (La Nuova Frontiera), della scrittrice e giornalista peruviana Gabriela Wiener, un percorso coraggioso e ironico su temi poco “investigati” della società contemporanea, un’esplorazione, una scoperta del mondo attraverso il corpo e i suoi linguaggi. Un viaggio kamikaze che porta la brava cronista a infiltrarsi nelle carceri di Lima per scoprire la storia dei detenuti attraverso i loro tatuaggi, a praticare lo scambio di coppia nei club per swingers, ad attraversare gli oscuri sentieri del Bois de Boulogne parigino per convivere con travestiti e prostitute, a sottomettersi a una complicata procedura per la donazione degli ovuli per pagarsi un master universitario, a partecipare a un rituale di assunzione della ayahuasca nella foresta amazzonica o a salire sul palco di uno show sadomaso.

Un testo molto bello e intenso, ma non riesco a capire perché definirlo “gonzo”, forse è più etichettabile, seppur sia allergico a questa parola, al filone del post-porno, un linguaggio giornalistico che potrebbe essere definito come un’indagine sulla sessualità fatta in prima persona, utilizzando un’ironia corrosiva per inseminare il dubbio nelle menti delle persone. Un porno critico, insomma, un porno politico, narrativo, in sostanza un post-porno diverso dai soliti, tristi e decadenti messaggi mascolini e maschili del porno classico.

Ma sto sviando. Cos’è il giornalismo gonzo? Leggendo Gabriela Wiener mi è venuto in mente un altro libro di “ambientazione latina”: Talpe a Caracas. Cose viste in Venezuela (Jaca Book),di Geraldina Colotti. Qui, attraverso la propria esperienza “di parte”, la giornalista italiana racconta di un Paese in splendida forma, dove si fa un gran parlare di Gramsci e dove i direttori delle carceri dichiarano che le prigioni non servono a nulla, sono inutili strumenti repressivi. Quartieri autogestiti, fabbriche recuperate, consigli operai, donne al centro della scena. Mentre l’Europa stringe la cinghia intorno alla vita di chi è già stato spremuto, a Caracas si tenta un’altra strada: con un piede nel futuro e un altro nel petrolio. In questo libro battente e corale, Geraldina Colotti racconta le “cose viste in Venezuela” in tredici reportage sul paese “bolivariano”. Rapper bolscevichi e maestri di strada, casalinghe col fucile e cuoche al potere, preti d’assalto e porporati golpisti, e maiali che scorrazzano insieme ai detenuti.

È gonzo un libro come quello di Geraldina Colotti? E lo è Il turista nudo (Adelphi), dell’inglesissimo e un po’ snob Lawrence Osborne, uno dei più straordinari “scrittori di viaggi” degli ultimi anni? Osborne è estremamente acuto, dissacrante e originale. Nel suo testo, una volta individuata una meta possibile, l’isola di Papua (Nuova Guinea), l’autore parte per un viaggio che sarà diverso da qualsiasi altro, e più di qualsiasi altro sgangherato e divertente. Comincerà con un’esplorazione di altrove molto contaminati (la Dubai che gli sceicchi stanno trasformando in un immenso parco a tema, le Andamane semidistrutte dallo tsunami e in procinto di essere ricostruite come le nuove Maldive, la Thailandia vista attraverso l’enorme città della salute e del fitness dove l’autore trascorre due surreali settimane) e si concluderà in un’immensa isola tra cieli verdi, fiumi fucsia e vulcani attivi, dove, si ritroverà nudo, cosparso di grasso suino e felice nel pieno di un’orgia tribale.

Quelli sintetizzati sono tutti libri veritieri e soggettivi, e se il giornalismo gonzo è in qualche modo questo (la soggettività di vivere un’esperienza) allora anche il Tiziano Terzani reporter in Vietnam era un gonzo, e pure Aidan Hartley lo è di diritto quando racconta la sua personalissima vicenda dell’Africa lacerata dalle guerre civili ne Il forziere di Zanzibar (Fusi Orari). E cosa dire di Ryszard Kapuściński? Leggendo la biografia scritta da uno dei suoi discepoli, Artur Domoslawski, La vera vita di Kapuscinski (Fazi Editore), il reporter polacco, antieroe per eccellenza, risulta essere il più gonzo di tutti. Ma abbiamo davvero bisogno, noi lettori, di doverlo definire così?

 

 

Faccio parte di una generazione che al nome Gonzo associa immediatamente la faccia assurda e tonta dell’extraterrestre del Muppet Show. Forse sono io ad essere semplicistico e fuori dal mondo, ma credo che l’unica differenza utile sia quella fra un giornalista che non ha nulla da dire e un giornalista “ganzo”. It’s time to play the music/It’s time to light the lights/It’s time to meet the muppets/On the Muppet Show tonight…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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