Milano, Palermo, Kabul. Tre città, una vita: il movimento studentesco nel Sessantotto, la mafia nell’82, il Policlinico, Emergency. Il medico che ho di fronte non ha una storia semplice. Ripesca gli episodi, li riannoda, e avverti i passaggi faticosi, le delusioni, gli entusiasmi. Cerca un tono naturale, ma non tutto può essere domato. Davanti alla seconda moglie Stefania, medico anche lei, racconta di sé chirurgo di guerra in Afghanistan, in Sierra Leone. Dietro, dalla porta aperta dello studio, si intravvede una grande foto a colori di una bella ragazza bionda, sua sorella.

Si chiamava Emanuela Setti Carraro. Mentre lui percorreva i primi passi della professione con il professor Vittorio Staudacher, andò in sposa al prefetto di Palermo Carlo Alberto dalla Chiesa. La sua foto con il braccio penzolante fuori dalla A112 del prefetto è storia pubblica. Paolo, questo il nome del medico, comprese forse il mondo più con quel delitto che con i seminari sulla medicina democratica che appassionarono la sua generazione.

Si gettò nella professione con rigore calvinista. Chirurgo severo, sempre in cravatta, atteso ogni mattino da pazienti e studenti. Trent’anni filati nel reparto di chirurgia d’urgenza, guadagnandosi fama di bravura, abnegazione, e freddezza anche nei momenti più tesi. E di umanità. “Umanità ma non simpatia, parola che nel nostro vocabolario ha perso la sua etimologia greca e si è involgarita”. Fino al ruolo di facente funzione di primario. Giunto in vista dei sessanta Paolo Setti Carraro ha però realizzato che il mestiere che stava svolgendo non era quello che aveva immaginato negli anni dell’università.

Sarà che i sogni di gioventù, se li hai avuti davvero, ti risaltano addosso quando hai molto camminato, sarà che contano anche le possibilità materiali o che vent’anni di Formigoni il segno sulla sanità lombarda l’hanno pur lasciato; fatto sta che il nostro chirurgo a un certo punto ha deciso di mettersi in pensione e di fare la scelta più radicale possibile, benché si fosse appena fatto una seconda famiglia: andare a lavorare in Afghanistan con Emergency, andare in soccorso degli ultimi al seguito della grande impresa umanitaria inventata da Gino Strada, suo compagno di contestazione e anche di un viaggio di perfezionamento in cardiochirurgia a Pittsburgh proprio in quel 1982.

“Perché l’ho fatto? Perché mi sono accorto che il denaro corrompe. Non è una frase fatta. Corrompe davvero, anche nella sanità, perché influenza le diagnosi, le terapie, le urgenze, la scelta dei luoghi di cura. Non mi sentivo compatibile con una medicina corrotta nella mente. Ho scelto di andarmene, di rinunciare anche alla mia attività privata, che mi dava quasi il triplo di quella pubblica, per mettere le mie capacità di chirurgo al servizio di cause in cui questi calcoli non si fanno. In cui non c’è un sistema sopra di te. Sei tu con la persona da curare. Tu e lei, da te dipende la sua vita, hai perfino una sensazione di onnipotenza per quanto è grande la tua responsabilità. Come quella volta che mi hanno portato una bambina con quarantotto buchi nell’intestino. Le era scoppiata addosso una mina, e un’infinità di frantumi le aveva attraversato il corpo. Ma ce l’abbiamo fatto a salvarla, topolina. Vedi, lì devi sapere operare sul serio, non c’è spazio per gli incapaci. E si seguono dei protocolli precisi, occorre le disciplina dei posti di trincea. Può sembrare un’espressione abusata, ma davvero si riscopre la professione del medico come servizio. Ecco, in quei luoghi la parola ‘servizio’ ritrova un senso”.

Quei suoi nuovi luoghi sono nell’Afghanistan che ribolle: Kabul e Lashkar Gah, gli ospedali di guerra, o il Panshir, dove si fa la cosiddetta chirurgia elettiva, ernie, calcoli. E la Sierra Leone, nei sobborghi di Freetown, dove pure Emergency ha creato le sue strutture. “In Italia torno a intervalli, per stare insieme alla mia famiglia. Con Stefania, anestesista alla Mangiagalli, che ha condiviso questa mia scelta. E con Alice, a cui cerco di fare sentire la presenza più che posso, domani pomeriggio andiamo a teatro insieme. Ormai in Afghanistan ho fatto in tutto due anni, in Sierra Leone dieci mesi. Ma sia chiaro, la mia vera funzione non è quella di andare a operare. Io lì devo formare giovani medici. Quando opero ho sempre accanto un giovane che osserva e a cui, appena posso, spiego che cosa sto facendo, a volte mi metto dietro. Te lo ricordi che cosa diceva il Grande Timoniere, Mao Tse Tung? ‘Se vuoi aiutare qualcuno non regalargli il pesce, insegnagli a pescare’. Ecco, è questa la mia funzione”.

Paolo racconta e i suoi scenari sembrano film d’avventura, popolati come sono di feriti di guerra, ambigue o deliziose figure locali, medici straordinari e decisioni repentine, guardie del corpo e trasferimenti a rischio, interventi disperati, bambini mutilati, sguardi di gratitudine indimenticabili. Ci sta tutto con i suoi ideali giovanili. Vorrei chiedergli se c’entra qualcosa quella bella ragazza che sorride in foto dietro di lui. Ma ne ho pudore. E forse non importa.

Il Fatto Quotidiano, 30 Dicembre 2012

Articolo Precedente

Dai baci al sesso, dai cani alla pausa caffè: la Cassazione e il bon ton nel 2012

next
Articolo Successivo

Stazione Tiburtina, una cattedrale nel deserto

next