“Il riscatto del principe ribelle: Harry ha ucciso un Taliban” (La Repubblica). “Uccide un leader talebano, Harry torna in prima pagina” (Il Giornale). “Il pilota Harry fa centro. Ucciso un capo talebano” (Corriere della Sera). Sembrano titoli della saga di un fantasy elettronico.  Scambiate Harry con Kratos e vi trovate dritti dritti in God of War, un videogame che ebbe molto successo negli scorsi anni.

Purtroppo, quella che i quotidiani italiani titolano con tanta leggiadra soddisfazione e superficialità non è una storia fantastica bensì il racconto tragico di una guerra, dove il principino lancia un missile Hellfire usando la sua consolle ultrasofisticata e uccide qualcuno. Un capo talebano (dicono), dunque uno per il quale non vale troppo la pena di spendere parole. Per l’illustre sparatore si usano invece parole forti, adulatrici: “riscatto”, “fa centro”, “torna in prima pagina”. Il resto: non è un affare nostro.

D’altronde la guerra in Afghanistan, se non viene ridotta a videogame (o a telenovela, come in questo caso), è un posto dove i soldati, soprattutto quelli italiani, costruiscono scuole, distribuiscono caramelle, vaccinano i bambini. E i nostri giornalisti più o meno embedded si accontentano di diffondere i comunicati dello stato maggiore e a intervistare i portavoce militari. Da questo punto di vista, la stampa italiana è il sogno di ogni comunicatore militare, quelli che ripetono con educata ossessione il mantra che gli viene insegnato dai manuali della Nato e nei corsi di quella che una volta veniva chiamata “guerra psicologica”.

In questo idillio crepuscolare, è ovvio che un principe che lancia un missile è una specie di elfo invincibile (non sono granché esperto di fantasy o di elfi, per cui non so se siano davvero invincibili) da celebrare. I morti sono un incidente, soprattutto i nostri. Tornano, alle omelie funebri li chiamano “operatori di pace” e tutto finisce lì. Dei feriti, non se ne parla. Anche di quelli che hanno perso una gamba, un braccio, un occhio. Volete mettere la geometrica potenza dell’Apache sul quale vola il capitano Harry Wales quando non esibisce le sue nudità a Las Vegas?

Volete mettere il royal glamour, rispetto alle centinaia di soldati che tornano a casa ed hanno la vita piegata dalle ferite invisibili della malattia mentale? Almeno i giornali inglesi ne parlano, e anche spesso. Raccontano di quei soldati che tornano con il PTSD, il post-traumatic stress disorder (disturbo post traumatico da stress), e se lo porteranno addosso per anni, per decenni, se non finiscono suicidi. Secondo il britannico Mirror, dei 2510 militari britannici che nel 2010 hanno avuto una diagnosi di malattia psichiatrica, 185 soffrivano di PTSD, una condizione associata con lo stress da combattimento. Percentualmente di più tra i soldati semplici, meno tra gli ufficiali. La rivista medica britannica Lancet, citata da The Guardian,  afferma che il 4 per cento dei militari britannici che hanno prestato servizio in Iraq e in Afghanistan soffre di PTSD e il 19,7 per cento di altri disturbi psichiatrici.

Anche in Francia la stampa denuncia da tempo queste vittime invisibili. Per Le Monde, sarebbero 400 i militari francesi in osservazione presso i servizi psichiatrici della sanità militare.

Da noi? Stiamo tutti bene, anzi benissimo. Se dovessimo badare alle statistiche inglesi ci dovrebbero essere alcune centinaia di soldati italiani rientrati dall’Afghanistan che soffrono di PSTD, considerando i circa 45 mila militari che hanno fatto almeno un turno di servizio in teatro nei dieci anni di guerra. Tutti così bene che, segretamente, il Ministero della Difesa ha un progetto per trasformare l’ospedale di lungodegenza di Anzio, una struttura militare quasi dimenticata, in un centro per i militari feriti nella mente. Ma niente titoli, per carità. No Harry? No Party!

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