Il comune di Amsterdam è impegnato ormai da tempo nel tentativo di lavare via la sua celebre (e blasonata) facciata di capitale della perdizione legale fatta di sesso a pagamento tassato, viaggi psichedelici da banco e feste in squat legali: via artisti squattrinati, bohemien e rumorosi gruppi di “backpackers” di una volta, dunque e porte aperte ad aziende, professionisti, personale altamente qualificato e lavoratori multilingue di tutto il mondo. Tra questi la comunità italiana è ben rappresentata e più in generale, solo nella capitale, secondo l’ufficio centrale di statistica, i residenti del Belpaese sarebbero oltre 5000. Ovvero la quinta nazionalità per importanza numerica, sulle oltre 180 della città.

Letizia, romana, ha 29 anni e da 7 vive ad Amsterdam. Era arrivata con in tasca una laurea in lingue orientali e la voglia di lasciarsi alle spalle l’immobilismo sociale dell’Italia “Lavoro per il team italiano di una società di prenotazioni alberghiere online e sono riuscita a costruirmi una carriera in un settore lontano dai miei studi. L’azienda mi ha dato fiducia e qui sono riuscita a raggiungere risultati altrimenti impensabili in Italia, in termini economici e di appagamento personale”. Anche William, pugliese, ha trovato ad Amsterdam la sua dimensione. Da tre anni lavora nel team italiano di un’altra importante multinazionale, specializzata nella produzione di navigatori satellitari: “Non sono laureato ma non ho avuto bisogno di alcuna raccomandazione. In Italia, non riuscivo a mettere insieme, con due lavori in nero, uno stipendio. Qui ho la mia indipendenza e sono riuscito a togliermi anche qualche soddisfazione”. 

Una città ricca, tollerante, con una straordinaria qualità della vita e infinite opportunità per stranieri? Secondo Massimo Benvegnù, giornalista italiano, impiegato presso l’Istituto Nazionale olandese di Cinema, l’Eye, la realtà è più complessa: un mercato del lavoro aperto e dinamico ma solo per ciò che riguarda le aziende multinazionali. “Amsterdam ha cambiato radicalmente volto negli ultimi anni”, dice, “una volta era un paradiso per le culture e per la sua diversità. Oggi creativi ed attività indipendenti se la passano male, schiacciati dallo smantellamento del sistema di contributi pubblici, dai costi insostenibili, dalla carenza cronica di alloggi a buon mercato e dalle politiche delle ultime amministrazioni, più preoccupate dei grandi investitori stranieri che non della tutela del sottobosco di culture indipendenti che hanno reso celebre questo posto”. Se da un lato il comune di Amsterdam è impegnato a competere con le grandi capitali finanziare del mondo, cercando di strappare alle piazze globali, professionisti ed aziende “appetibili”, dall’altro c’è ancora chi viene qui attirato dal fascino delle storiche controculture che, negli anni ’70 ed ’80, hanno disegnato il volto ribelle della città. Alessandra, laureata la Dams di Bologna, è originaria di Pescara: “Sono venuta ad Amsterdam per curare un mio progetto sulla psichedelia, dato che in Italia l’interesse per le culture indipendenti è scarso mentre l’Olanda ha al riguardo una lunga tradizione. Per dare corpo alla mia idea, ho però bisogno di tempo per svolgere ricerche e l’impiego presso un’azienda non sarebbe stata un’opzione”. Per mantenersi, lavora in un bar italiano. “Qui mi sento a casa ma non sono stata sempre cosi fortunata: appena arrivata ho lavorato in un ristorante in centro, non in regola, pagata meno del minimo sindacale. Anche per l’alloggio, mi sono dovuta a lungo accontentare di sub-affitti temporanei: solo grandi aziende possono offrire le garanzie minime richieste da privati ed agenzie”.

Anche Angela, trentenne napoletana, una laurea in scienze della comunicazione, dopo aver deciso di rompere con il “sistema Italia” ha scelto Amsterdam per la sua dinamicità sociale. “Ho esperienza nel settore editoriale ma una volta arrivata qui ho dovuto ricominciare tutto da capo”. Dopo un anno di lavori di sopravvivenza, irregolari e mal pagati, l’entusiasmo iniziale non è diminuito ma sono aumentati gli interrogativi. “Ho una preparazione umanistica e vorrei lavorare in quel campo ma al mio arrivo, sono stata realista e non mi sono preclusa alcuna strada: ho inviato centinaia di curriculum, alle molte aziende internazionali, senza però ottenere colloqui – dice- I lavori ‘di emergenza’ sono intermittenti e consentono al massimo di sopravvivere e per quanto un po’ di “gavetta” sia inevitabile, mi chiedo quanto ancora durerà”. Amsterdam una delusione? “Bilanci dopo un anno è difficile farne – prosegue Angela- mi sto dando da fare, imparando l’olandese e facendo volontariato ma per uno straniero, le alternative alla carriera aziendale o a paghe scarse nell’horeca (hotellerie-restaurant-café, ndr) sono un obiettivo non facile da raggiungere”.

Articolo Precedente

Università: Valentina e Ilaria, ricercatrici unite contro i baroni

next
Articolo Successivo

Ritorno in Italia: il primo impatto

next