Antonio Ingroia è un magistrato in trincea, con una storia professionale di primo piano. Assieme ai colleghi della Procura di Palermo subì ripetuti intralci; prevedibili, direi scontati, vista la delicatezza dell’inchiesta sulla «Trattativa». L’Italia, sappiamo, ha vissuto anni bui: di depistaggi, finzioni, mascheramenti della verità, rimasta sempre all’orizzonte come ideale lontano, meta inarrivabile; una specie di Castello kafkiano.

Da tempo, l’opinione pubblica protegge in vari modi le indagini sulla trattativa, reagendo a interventi istituzionali inopportuni e pure eccessivi, la cui ratio non si mostra, nonostante le risapute legittimazioni dello Stato.

Oggi è imminente l’annuncio della candidatura di Ingroia, che garantirebbe una lista di soggetti già coesi alle ultime comunali di Napoli: Idv, Arancioni, Verdi e Comunisti. Vale rammentare che sul piano tecnico Ingroia non può essere il candidato premier; uguale è per Monti, Bersani, Berlusconi o l’Emiliano Morrone sindaco di Benarivez, la città inventata di racconti alla Borges.

La figura di Ingroia non si discute. È inutile confrontarlo con il Cavaliere delle Ruby, della crisi inesistente, del caso Mills, Mediaset o Unipol, della propaganda sulla ricostruzione a L’Aquila. Né serve ripeterci che siamo in una «situazione emergenziale» che richiede misure straordinarie, tra cui l’ingresso in parlamento di un pm della trattativa. Peraltro, dentro il progetto elettorale in questione, che nel tempo potrà rivelare il suo corpo politico, i magistrati sarebbero tre: Ingroia, De Magistris e Di Pietro; tutti, secondo molti, costretti a lasciare il loro ufficio della Giustizia.

A me pare che la politica si debba leggere e costruire con maggiore profondità, evitando l’onda delle emozioni, pur necessarie. Partirei dalla sentenza della Corte Costituzionale circa le intercettazioni di Nicola Mancino, che dà ragione al presidente Giorgio Napolitano e torto alla Procura di Palermo. In proposito, il buon senso fa dire a tanti della prima Repubblica, per esempio nella corrente di Carmelo Puja (Dc), che la vicenda è assurda: nessuno stava intercettando Napolitano, che perciò non poteva prefigurarsi alcuno scenario. Se perfino i democristiani ante litteram (e ancora attivi) respingono il gesto del capo dello Stato e la decisione della Consulta, significa che l’evidenza è netta: lo Stato non accetta per principio il processo a se stesso, con il che non si accusa Napolitano.

Il punto, allora, è che esiste un contrasto all’interno dello Stato, che non è di legge o di diritto, ma, a prescindere dagli accertamenti penali, tocca la costituzione stessa dell’apparato pubblico. Questo vuol dire che la Procura di Palermo sta compiendo un’impresa titanica, ricomponendo il quadro dei rapporti tra Stato e antistato. Soprattutto, significa che il compito dei magistrati sarà più complicato, già nel futuro prossimo. Perciò Ingroia non può e non deve candidarsi. Se lo fa, suo malgrado corrobora le distorsioni dell’ultimo ventennio: confusione di ruoli, politica d’impatto mediatico, fungibilità dei programmi e delle parole.

Considerazione finale. La politica si fa nei territori, giorno per giorno. La giustizia si fa nei tribunali, giorno per giorno. Quotidianamente la politica deve incidere nella cultura e nel giudizio degli italiani, ancora sedotti dai paradigmi berlusconiani. La giustizia può avere più forza se la politica sa difendere, tutelare, coinvolgere e trasformare le persone.  

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