Solo una minoranza riesce a credere che il 21 dicembre di quest’anno, dopodomani, ci sarà la fine del mondo, o almeno una sua qualche trasformazione fondamentale.

Eppure, riflettere sulla fine mi pare abbia alcuni vantaggi. A me almeno fa un effetto rasserenante, di microscopico distacco immediato.

Memento mori“, si diceva nell’antica Roma: la frase pare si usasse come antidoto alla superbia, la si ricordava a chi tornava vincitore e veniva acclamato dalle folle. In seguito è stata adottata dall’ordine dei frati trappisti. Sulla pagina ufficiale di un monastero trappista leggo: “Qualsiasi persona porta in sé un “monaco” nascosto”, e la frase mi colpisce e mi affascina.

Tener ben presente la grande verità che noi tutti, ricchi e poveri, belli e brutti, bassi e alti, grassi e magri, noi esseri viventi siamo tutti transitori e vulnerabili, su questo pianeta, è cosa risaputa e quindi in fondo la più grande delle banalità: eppure ci caratterizza come esseri umani rendercene conto, saperlo. Una grande ferita al nostro quotidiano narcisismo, al desiderio di contare, di “realizzarci”, ma anche una grande occasione di aprirci alla gioia del presente: all’esserci, qui e ora.

La parola inglese “present“, che significa “regalo“, proviene, nella sua etimologia, dalla nostra parola “presente“, nel senso di quello che esiste ora: “present=existing at the time”. Amo le parole che mi portano per mano all’evidenza del valore di quel che cercano di comunicare: il presente, l’esserci e poterci accorgere di esserci, come regalo, dunque.

Mettiamo che, mentre dormiamo, “il grande cambiamento” avvenga. Non occorre che noi ci si creda o meno, facciamo qui un piccolo esperimento mentale.

Quando poi al mattino del 22 ci sveglieremo, da che cosa ce ne accorgeremo, nel nostro immediato, che questo grande cambiamento è avvenuto?

Forse non ci verrà mai più in mente di stare sulla difensiva e non avremo alcun bisogno di ricadere nell’automatismo di alcuna attribuzione diffidente, ma ci occuperemo gli uni degli altri con amichevole sollecitudine, chiedendo alla vicina o al vicino di casa “come sta oggi, signor/a…?”, e intendendolo davvero?

Forse sentiremo il bisogno di vivere somigliando a quella persona consapevole, solidale e costruttiva che ci auguriamo di incontrare? E lo faremo perfino senza stressarci, con empatia per tutti gli esseri umani, che fanno del loro meglio immersi nella realtà imperfetta, noi stessi compresi?

Forse ci prenderemo cura della nostra proverbiale irrequietezza, parlandole, nel dialogo interno, con nuova e profonda simpatia?

Forse in un attimo “perdoneremo” il nostro prossimo per essersi comportato così spesso in modo diverso da come a noi piacerebbe, e perdoneremo anche noi stessi, che siamo il prossimo degli altri, imperfetto come ogni cosa abbia a che fare con noi umani, se solo usiamo (ma lo useremo ancora?) il concetto di perfezione?

Forse saremo identici a com’eravamo il giorno prima, se non fosse per questa nuova e straordinaria affettuosa accettazione, gli uni per gli altri, noi così tanti eppure così vulnerabili e soli, ognuno dentro di sé?

Forse riusciremo ad ascoltarci per risolvere i numerosi problemi grandi e piccoli, senza svalutarci a vicenda se abbiamo opinioni diverse sul come riuscirci?

Forse staremo in silenzio, soggiogati dalla sensazione forte di gioia e di gratitudine di accorgerci di essere in vita e dal non darlo più per scontato, come fino al giorno prima?

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