Anche se ormai quella del medico è una professione sempre più al femminile e nel giro di pochi anni ci sarà il sorpasso ‘rosa’ nelle corsie degli ospedali italiani, la parità tra i sessi rimane ancora una chimera. I dati parlano chiaro: il 40 per cento dei medici negli ospedali pubblici è donna, addirittura il 62-63 per cento nella fascia di età 25-39 anni, ma solo il 14 per cento ricopre l’incarico di direttore di struttura complessa e il 9 per cento è direttore generale. E’ il quadro poco confortante emerso alla Prima conferenza nazionale donne del sindacato Anaao-Assomed dei medici dirigenti, svoltasi il 15-16 dicembre a Roma.

Sebbene il 63,5 per cento degli iscritti alla Federazione nazionale degli ordini dei medici e odontoiatri (Fnomceo) sia rappresentato da uomini (137.624 donne sul totale di 376.265 – dati Fnomceo 2012), presto la componente femminile medica supererà quella maschile, per l’Anaao. Gli uomini infatti sono più numerosi nella fascia di età più avanzata e dunque prossima alla pensione. Ciò nonostante, le manager sanitarie sono ancora delle mosche bianche, soprattutto per la difficoltà di conciliare famiglia e carriera, tanto che il 30 di quelle che ricopre un ruolo di rilievo è single o separata e una donna-medico su tre non ha figli. Tra le altre criticità che ostacolano la carriera al femminile c’è anche la mancata sostituzione per lunghi congedi di maternità o parentali (viene sostituito meno del 10 per cento delle donne in astensione dal lavoro), la mancata flessibilità degli orari di lavoro, le difficoltà di accesso al part-time (utilizzato in non più del 2 per cento dei casi), l’assenza di asili-nido aziendali e l’abuso nell’utilizzo di contratti atipici.

“La medicina si é più femminilizzata – commenta Rita Nonis, vicepresidente dell’ordine dei medici di Sassari, che si occupa di questioni di genere – ma le donne fanno fatica a inserirsi nel modello attuale di sanità, che è maschile. Non è congeniale al loro modo di essere questo tipo di organizzazione prettamente verticistica e leaderistica”. Invece proprio la presenza delle donne potrebbe salvare la sanità, il cui “modello, così come quello dell’industria e della politica, basati su leader maschi autocrati, è destinato al fallimento. Nel tempo infatti tendono a consolidare la loro posizione, anziché agire e cambiare. Il comando gestito dalle donne – conclude – è invece più condiviso e multidisciplinare e in sanità si è già visto che se è un team ad avere la gestione, migliora il benessere lavorativo, si fanno meno errori e c’è meno “malpractice”. Ma finché l’organizzazione sarà basata sui primari, le donne non avranno mai spazio”.

Inoltre, rispetto ai colleghi uomini, le donne medico italiane guadagnano meno: i compensi per l’attività di libera professione in regime di intramoenia sono circa la metà di quelli dei maschi. Secondo uno studio dell’Ordine dei Medici di Roma, il 45 per cento dei giovani medici svolge un’attività libero-professionale per circa 10 ore settimanali e, mentre gli uomini riescono a guadagnare fino a 3000 euro da questa attività, le donne arrivano al massimo a 1700.

Eppure la sfida professionale, nonostante tutti questi sacrifici, continua ad attrarre, tanto che, seppur in modo piccolo ma costante, il numero di dottoresse che si iscrivono alle scuole di specializzazione chirurgiche aumenta. Tra le specializzazioni però le più gettonate rimangono pediatria, ginecologia, anestesia e odontostomatologia. Agli ultimi posti chirurgia generale, oncologia e ortopedia. Come migliorare la situazione? Secondo l’Anaoo sono cinque le azioni da intraprendere: sostituzione obbligatoria dei medici in maternità, politiche di conciliazione lavoro-famiglia, orari di lavoro flessibili, l’adeguamento della norma su part-time e tutela dei contratti atipici. Insomma, applicare la legge. Ma per ora tutto ciò rimane solo uno dei tanti buoni propositi.

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