Nei romanzi di fantascienza di una volta, sembrava che nel ventunesimo secolo ci saremmo fatti vacanze sulla Luna tutti gli anni. E invece questo secolo si sta rivelando più simile a un romanzo di Dickens, quando ti raccontava di ragazzi vestiti di stracci che morivano di fame nella Londra dell’800. Ultimamente, per esempio, ho scoperto che ci sono persone nella mia città che stanno al freddo in questi giorni di inverno perché non possono permettersi il riscaldamento. Che le cose non vanno bene in Italia, lo sappiamo tutti.

I consumi petroliferi sono in diminuzione, quelli elettrici lo stesso e la produzione industriale crolla. E se l’Italia non sta bene, il resto nel mondo non sta meglio: la crisi è globale. Di fronte a questa situazione è curioso come siano deboli le soluzioni proposte: ridurre le spese per i servizi e aumentare le tasse per raccogliere risorse che, poi, dovrebbero “far ripartire la crescita.” La crisi, evidentemente, viene vista soltanto come un temporaneo incidente di percorso, rimediabile con piccoli aggiustamenti.

Ma se invece la crisi fosse irreversibile? Di questa possibilità non si legge sui giornali, ma era la conclusione alla quale era arrivato lo studio noto in Italia come “I Limiti dello Sviluppo” e del quale quest’anno ricorre il 40esimo anniversario. Era uno studio che prevedeva che l’economia mondiale avrebbe finito per contrarsi irreversibilmente sotto gli effetti negativi combinati del graduale esaurimento delle risorse minerali e dei danni generati dall’inquinamento – che oggi vediamo principalmente come cambiamento climatico. Quella dei “Limiti dello Sviluppo” è una lunga storia. Prima osannato e poi demonizzato per mezzo di una campagna denigratoria, era andata a finire che tutti o quasi si erano convinti che erano soltanto delle “previsioni sbagliate.” Ma non c’era niente di sbagliato in uno studio che quantificava una realtà indiscutibile: il fatto che non è possibile crescere all’infinito.

Lo studio non pretendeva di fare delle previsioni precise ma è impressionante vedere come la crisi in cui ci troviamo oggi corrisponde bene all’inizio del declino previsto dal “caso base” dello studio, ovvero quello basato sui dati che all’epoca erano ritenuti i più affidabili. Questo lo vedete nella figura, presa dalla copertina dell’edizione italiana del 1972. Notate come le curve per la produzione industriale e agricola cominciano a declinare a partire dal secondo decennio del secolo attuale. 

Lo studio ci permetteva anche di studiare come contrastare la crisi. Per esempio, può la tecnologia salvarci?
Apparentemente no. Anche con ipotesi estremamente ottimistiche sulla nostra efficienza e sulla nostra capacità di sfruttare di nuove risorse, lo studio trovava che, se il sistema continua a cercare la crescita ad ogni costo, finisce per collassare comunque, prima o poi.
Soltanto una serie di politiche mirate a stabilizzare il sistema economico e la popolazione poteva evitare il collasso. Se questa interpretazione è vera, ne consegue che tutto il dibattito attuale ha mancato completamente le ragioni della crisi: non si risolve niente con piccoli aggiustamenti finanziari. Il tentativo di “far ripartire la crescita” vuol dire solo sprecare le risorse che restano e che, invece, andrebbero utilizzate per sviluppare nuove strategie economiche basate su risorse rinnovabili.
In fin dei conti, lo studio dei Limiti dello Sviluppo ci dice una cosa molto semplice: ovvero che la decrescita è inevitabile: non è una scelta ma una necessità. E sembrerebbe difficile che sia una decrescita felice, come si stanno purtroppo accorgendo quelli che non riescono più a pagare la bolletta del riscaldamento.

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