Vuoi vedere che alla fine aveva ragione Giovanardi, quando puntava il dito (e oggi è tornato a farlo) contro la vita da ‘tossicodipendente’ di un ragazzo arrestato con 20 grammi di hashish e morto nel letto del reparto protetto di un ospedale romano?
Vuoi vedere che quella morte lenta, quell’agonia durata sei giorni, di un uomo di appena 32 anni – un boxeur, un tipo magro ma atletico – sia stata quasi un caso? 
O sia dovuta soltanto alla negligenza di medici distratti che non si sono accorti, quasi facessero un altro mestiere, che sotto i loro occhi chiusi un ragazzo stava morendo, di fame e di sete?

Questo hanno decretato oggi i periti incaricati dalla III Corte d’Assise di Roma di far luce sulle cause del decesso di Stefano Cucchi. Inanizione. Che brutta parola. Si muore di fame e di sete quando non si ha nessuno intorno, si muore di fame e di sete quando si attraversa il deserto africano in cerca di un destino migliore. Non quando si è nelle mani dello Stato, con una famiglia che bussa alle porte di un ospedale diventato un carcere inaccessibile.

Non si può morire di fame e di sete nell’Italia del XXI secolo. Ma ammettiamo, per un attimo, che questa sia la verità, che la causa – ultima – della morte di Stefano Cucchi sia stata l’inanizione. E già questo fa inorridire. Però, con la famiglia, continuiamo anche a chiederci perché Stefano era stato ricoverato. Perché era finito in quel maledetto reparto. Lesioni lievi, che non avrebbero richiesto il ricovero in ospedale, dicono i periti giunti tre anni dopo la sua morte. E allora? Furono pazzi quei medici, quegli altri medici, che – visitandolo prima – ne constatarono la gravità e lo spedirono dritto dritto a curarsi? A curare quella schiena massacrata?

Le lesioni sono compatibili, dice ancora l’istituto Labanof di Milano, sia con una caduta accidentale, sia con un’aggressione. Non si può stabilire se prevalga la prima o la seconda. Tanto che importa, la colpa è dei medici. “Ma come?” dice ora la sorella Ilaria, “se spunta addirittura un’altra frattura, quella di L4 (quarta lombare), attaccata a L3 (terza lombare)” come si può pensare che queste lesioni siano pregresse? E perché “è stato prelevato tessuto osseo della vertebra nella parte opposta ed interna dove, guarda caso, vi era una vecchia frattura”?

Stefano Cucchi non sarebbe finito al Pertini se non fosse stato picchiato, al momento dell’arresto o subito prima del processo, in una cella di sicurezza o chissà dove. Stefano Cucchi è stato visto con gli occhi gonfi di botte dal padre Giovanni, poche ore dopo il suo arresto. Stefano Cucchi ha vissuto una via crucis tra gli ospedali romani e, ovunque sia andato, è stato sottoposto a visite e radiografie. Stefano Cucchi è morto perché, dopo essere stato massacrato di botte, è stato abbandonato da chi avrebbe avuto il dovere di salvarlo.

Ma la sensazione, da tre anni a questa parte, è e rimane una sola: che non si voglia cercare la verità, che questo processo si debba chiudere con alcuni capri espiatori e che mai nessun carabiniere o nessun poliziotto penitenziario debba pagare per la vita di un giovane uomo. Tante volte, ormai, abbiamo visto che le divise in Italia non si possono toccare. Ma è una realtà a cui non sappiamo abituarci. Altrimenti la colpa, come dice Giovanardi, è solo della droga.

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