Ho visitato alcuni giorni fa il Museo della storia del Genoa (Salita Diniego 7, Genova), il luogo ideale non solo per immergersi nell’affascinante vita della prima squadra di calcio ad essere fondata nel 1893, ma anche per conoscere l’evoluzione sociale, economica e urbanistica di una città come Genova, tra il V e il VI posto in Italia per numero di abitanti.

L’allestimento della mostra segue una sequenza tipologica d’ordine, in primo luogo, storico. Siamo proprio alle origini della storia del calcio, non ancora corrotta dalla sovrapposizione ed esposizione economicistica. Come ricorda Aldo Padovano nel suo 1891-1900. Football fin de siècle e dintorni , l’importazione del gioco del calcio avviene via mare, con lo sbarco sulle coste italiche – e in modo particolare quelle tirreniche – delle navi di Sua Maestà britannica. E’ questa la ragione di fondo della anglicizzazione dei nomi delle località ben prima dell’unità d’Italia: Genoa, Lenghorm, Naples, Sicily. L’esportazione del calcio da parte inglese attecchisce in primo luogo a Genova, dove il 7 settembre 1893, al Consolato britannico situato in un signorile palazzo in Via Palestro, alla presenza del console inglese Sir Alfred Payton, viene fondato il Genoa Cricket and Athletic Club. Il 20 marzo del 1896 il medico inglese James Richardson Spensley, da pochi anni sbarcato nel capoluogo ligure, si iscrive al Genoa Club.

Il criterio d’ispirazione del grande Simposio Nazionale sull’estetica del gioco, che si è tenuto a Genova il 7-8 dicembre, è stato mutuato proprio da Spensley. Il testo del medico inglese recita: “Il pericolo, per noi moderni sta nella tendenza a considerare tutte le teorie degli altri tempi e dovute ad altre condizioni come assolutamente prive di valore e nel ritenere valevoli solo le nostre. Noi ci consideriamo come quelli che per primi raggiunsero nuovi ed originali punti di vista, ma ‘nihil sub sole novum’, dice il vecchio adagio e non dobbiamo dimenticare la critica di Mefistofele: ‘nulla si può pensare di diritto o torto/ che pensato non abbia il mondo antico’”.

Quanto è lontano questo dal calcio e da gran parte dello sport professionistico contemporaneo che, anestetizzando tutti i possibili conflitti, sembra ormai essere dominato dalla privazione di ogni genuino sentimento, avendo perduto le sue origine etico-eroiche e la sua identità. Il calcio dovrà recuperare quella dimensione giocosa ormai umiliata, come suggerisce molto bene Alessandro Di Chiara nel suo Paidia, cenni per una filosofia dell’esistenza come gioco, dall’“Ineluttabilità dell’ospite inquietante e sconvolgente del Novecento e dell’inizio di quest’ultimo secolo: il nichilismo” (p. 15). Da un lato, dunque, il nichilismo nella sua declinazione economica, dall’altro, il grande paradigma della passione, che non potrà mai essere istituzionalizzato, sono i termini estremi – la degenerazione contemporanea e l’età dei pionieri – entro cui circoscrivere l’esperienza del calcio.

Un’esperienza narrata in maniera dolente e autoironica nell’Addio al calcio di Valerio Magrelli, dove, in un curioso romanzo eroicomico, un tifoso “suo malgrado” si mette in discussione confessandosi: l’epica irredimibile delle domeniche pomeriggio trascorse in ostaggio della televisione, la mite bellezza dei mille campetti improvvisati, i due tiri sulla spiaggia, la cronaca dei vecchi album sportivi, i palloni perduti sui prati montani… un rito d’iniziazione che va progressivamente isterilendosi, soffocato dal dominio delle oligarchie finanziarie che imperano sul mondo e sulle persone comuni.

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