Pubblichiamo un capitolo del libro “Armi, un affare di Stato – Soldi, interessi, scenari di un business miliardario” di Duccio Facchini, Michele Sasso e Francesco Vignarca (edizioni Chiarelettere, Reverse – 256 pagg., 14 euro). Il libro (in collaborazione con Altreconomia) racconta un business internazionale che continua a macinare miliardi. La Grecia sull’orlo del default è il paese in Europa che spende di più per la difesa. L’Italia è il quinto produttore mondiale di armi, che esporta in tutto il mondo. Simboli del made in Italy, anche in questo settore, sono la corruzione e gli scandali, soprattutto quelli legati a Finmeccanica. Soldi, soldi, soldi. È fondamentale provare a guardare il mondo attraverso questo business che arricchisce una lobby internazionale potentissima. Un mercato cresciuto del 50 per cento negli ultimi dieci anni. Questo libro percorre per la prima volta la filiera delle armi raccontandone affari, interessi e ritorni economici. Con nomi e cognomi di banche, politici, manager e imprenditori.

In questo capitolo si parla di export (anche italiano), import e del ruolo decisivo delle banche.

I grandi esportatori
Se il rapporto tra il commercio internazionale degli armamenti e la crisi economica esplosa nel 2008 potesse essere riassunto in una battuta, potrebbe essere la riuscita vignetta di Altan: «Questa crisi durerà anni» abbozza il primo dei due personaggi; «finalmente un po’ di stabilità» replica l’altro. Infatti, nonostante il baratro che ha inghiottito l’economia dei paesi ritenuti «sviluppati», le armi continuano ad avere un mercato stabile. Anzi, in crescita. A scattare l’impietosa fotografia è ancora una volta il Sipri nel suo archivio sul commercio internazionale dei sistemi d’arma aggiornato al 2011. Secondo i dati pubblicati dall’istituto indipendente, il volume dei trasferimenti di armi convenzionali (arms transfers) è aumentato, nel periodo 2007-2011, del 24 per cento rispetto ai cinque anni precedenti (2002-2006) e ammonta a circa 30 miliardi di dollari.

Al di là della precisa quantificazione dell’intero mercato, resa problematica sia dalla scarsa disponibilità di taluni paesi a fornire cifre trasparenti, sia perché non tutti condividono la stessa definizione di «armi», quel che emerge – e interessa qui in termini generali – è la tendenza del volume di trasferimenti. Che è in stabile crescita, come detto. A questo punto occorre fare una distinzione tra spese militari, cioè le risorse complessive che gli Stati destinano al settore della difesa, e import/export di armi, cioè gli acquisti e le vendite di armamenti. Secondo il database del Sipri, l’India è al primo posto nella categoria degli importatori, mentre gli Stati Uniti si collocano al primo posto tra gli esportatori.

Scorrendo i dati è possibile ricostruire le performance dei cinque principali fornitori di armi nel periodo 2007-2011. Stati Uniti e Russia, da soli, coprono il 54 per cento delle esportazioni mondiali, rispettivamente con il 30 e il 24 per cento. Gli altri tre sono Germania (9 per cento), Francia (8 per cento) e Regno Unito (4 per cento). Ciò significa che cinque paesi al mondo catalizzano il 75 per cento dell’esportato. Quattro di questi siedono permanentemente presso il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, organismo nato sulle macerie della Seconda guerra mondiale con la responsabilità principale «del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale». Non solo: il capitolo quinto dello Statuto delle Nazioni Unite stabilisce, all’articolo 26, che «il Consiglio di sicurezza ha il compito di formulare, con l’ausilio del Comitato di stato maggiore previsto dall’articolo 47, piani da sottoporre ai membri delle Nazioni Unite per l’istituzione di un sistema di disciplina degli armamenti». Un «sistema di disciplina» declinato a suon di miliardi di dollari di esportazioni.

La cifra complessiva delle esportazioni statunitensi nel periodo 2007-2011 ammonta a 39,1 miliardi di dollari. I principali «destinatari» (o clienti) sono stati l’Asia e l’Oceania, seguite da Medio Oriente ed Europa. Il comparto che ha fatto registrare l’aumento più significativo è stato l’aeronautica (+63 per cento). Un dato che riassume perfettamente il «peso specifico» che hanno gli aerei da combattimento nel volume dei trasferimenti, visto che già nel periodo 2005-2009 coprivano quasi il 30 per cento del mercato. Si consideri poi che i principali importatori di velivoli militari sono India, Emirati Arabi e Israele (quest’ultimo per 1,6 miliardi dei 39,1 totali). L’ordine più significativo messo a segno dagli Usa nel 2011 è stata la vendita di 84 nuovi aerei F-15Sg e la «riparazione» di 70 F-15Es. Tutti questi dati non devono essere visti come cifre aride, ma come numeri che riassumono situazioni di conflitto. Gli F-15 di cui parliamo sono probabilmente gli stessi che volteggiano per intercettare i velivoli nemici, mentre quelli israeliani bombardano i territori da cui sono partiti i razzi contro i loro insediamenti. E gli aerei venduti all’India potrebbero in un prossimo futuro essere protagonisti di scaramucce o scontri su larga scala con il vicino Pakistan. Le tendenze e le statistiche, che ci aiutano a capire le dinamiche di questo comparto e a cogliere dove si materializzano i conflitti, sono però ancora più utili se ricordiamo che si tratta di armi: i flussi vanno quasi sempre a finire in zone problematiche del mondo. Dietro un numero, un contratto, una bella e luccicante immagine di un sistema d’arma ci potranno essere attacchi, conflitti, morti, distruzioni.

Il paese al secondo posto nel mondo per le vendite di armi è, come detto, la Russia. Cresciuto esattamente della metà rispetto ai «contendenti» nordamericani, l’alleato d’acciaio dell’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi esporta in Asia, Oceania, Africa e Medio Oriente. Tra il 2007 e il 2011 le esportazioni russe hanno toccato quota 30,5 miliardi di dollari. Poco meno di un terzo ha interessato il mercato indiano, seguito da quello cinese, algerino e venezuelano. La Germania, anche in questo settore, fa registrare risultati da «locomotiva d’Europa» (+37 per cento nel periodo di cui sopra e 11,7 i miliardi di dollari «fatturati»). La Francia e il Regno Unito seguono a ruota, con volumi di esportazioni che sfiorano i 10 miliardi di euro.

I grandi acquirenti
Ma chi sono i paesi che comprano? I cinque in testa alla categoria sono India, Corea del Sud, Pakistan, Cina e Singapore. Il dato che certamente più colpisce è l’incremento che si è verificato nel continente africano negli ultimi dieci anni: +110 per cento. La minaccia della «primavera araba» ha determinato un’autentica esplosione delle importazioni in Nord Africa (+273 per cento). Paesi come l’Egitto, la Libia e la Tunisia hanno importato grandi quantitativi di armi per reprimere le rivolte dei dimostranti. L’Egitto, per esempio, ha ricevuto direttamente dagli Stati Uniti una quarantina di tank e ne ha ordinati un altro centinaio: sono i mezzi che permettono il ferreo controllo della classe militare su questo paese, visto anche il valore simbolico del ricevere forniture direttamente dalla massima potenza del globo.

Alcuni, insieme ad altri blindati leggeri, si sono visti nelle piazze egiziane gremite di persone inneggianti alla libertà: un contrasto crudo ed emblematico per un paese così povero e nel contempo così armato. In Medio Oriente è la Siria che ha visto crescere maggiormente il proprio volume di importazioni: 580 per cento in più nel periodo 2007-2011 rispetto al 2002-2006. Un numero dietro il quale c’è la tragedia di un intero popolo. E poi le Americhe. Il mercato delle armi è in leggera crisi nei paesi del Centro America (-15 per cento in dieci anni), mentre è in ottima salute al Nord (+54 per cento) e al Sud (+77 per cento). Il Venezuela di Hugo Chávez, rifornito soprattutto dalla Russia, registra un impressionante incremento del 555 per cento, che gli è valso il quindicesimo posto nella classifica mondiale degli importatori. Il Brasile, secondo il Sipri, sarà protagonista da qui ai prossimi anni di un «drammatico» aumento del volume delle sue importazioni d’armi.

In Asia è l’India il paese che s’impone come principale «ricevitore» di sistemi d’arma (+38 per cento), acquistate soprattutto dalla Russia. Il Pakistan, tradizionale nemico dell’India, sta facendo scorta di tank e carri armati forniti da Cina e Stati Uniti. Il Sudest asiatico ha conosciuto un incremento vertiginoso, paragonabile a quello del 1975, quando il Vietnam era in guerra. Malesia e Singapore trainano il convoglio, con una crescita vicina al 300 per cento, seguiti da Indonesia (+144 per cento) e Vietnam (+80 per cento), zone interessate da fortissime tensioni presso i confini marittimi, come il Mar Cinese meridionale. La tranquilla Australia ha raddoppiato le sue importazioni da Stati Uniti, Francia e Germania tra il 2007 e il 2011. Ci si potrebbe domandare il motivo di una tale corsa agli armamenti, visto che nel Pacifico meridionale non ci sono minacce esplicite di conflitto. La risposta è che per stare in piedi l’industria delle armi deve continuare a vendere sistemi sempre più complessi e costosi, e i governi di tutto il mondo sono interessati per vari motivi a destinare risorse a tale scopo. In Europa, teatro della più profonda crisi economica dopo quella del dopoguerra, le importazioni di armi sono cresciute in dieci anni del 13 per cento. Non solo: la Grecia, il paese che più di tutti ha pagato lo scotto della crisi, è stato quello che ha registrato il maggior tasso di crescita: +18 per cento.

I clienti dell’Italia
In tutto questo l’Italia che ruolo gioca? Dal punto di vista delle importazioni il nostro paese ha registrato un forte incremento, con un’impennata proprio nel 2011, l’anno nero della crisi. I fornitori privilegiati sono gli Stati Uniti e la Germania. Sul versante delle esportazioni, il paese che nella sua Costituzione dichiara di ripudiare la guerra ha venduto armi per 3,2 miliardi di dollari in cinque anni (2007-2011) a vari paesi, tra cui la Libia. «L’Italia – sostiene infatti Giorgio Beretta, ricercatore della Rete italiana disarmo e collaboratore del sito Unimondo – non solo è uno dei principali partner commerciali della Libia, ma è stato il maggior fornitore europeo del regime di Gheddafi. Nel solo biennio 2008-2009 ha autorizzato l’invio di armamenti alla Libia per oltre 200 milioni di euro, che rappresentano più di un terzo (il 34,5 per cento) di tutte le autorizzazioni rilasciate dall’Ue».

Salvo interrompere il flusso – almeno ufficialmente – nel 2011, allo scoppio del conflitto che ci ha visto protagonisti dei bombardamenti dell’ex alleato con nostri mezzi e uomini. Le imprese italiane al centro dell’export appartengono quasi tutte alla galassia Finmeccanica. Incrociando i dati forniti dalle relazioni annuali della presidenza del Consiglio dei ministri, lo stesso Beretta ricostruisce i cambiamenti dei flussi di mercato. Dal 2009 la percentuale dei paesi «destinatari » posti al di fuori della Nato o dell’Unione europea diviene maggioritaria. Non è stato soltanto l’ex «cliente» libico (come lo ha definito Finmeccanica anche nell’ultimo bilancio 2011) ad aver beneficiato delle forniture nostrane. Secondo un rapporto stilato nel 2011 da Amnesty International, anche il nostro paese avrebbe contribuito all’approvvigionamento di governi classificati come «repressivi» del Medio Oriente e del Nord Africa.

«I numerosi omicidi e le violazioni continue dei diritti umani verificatisi a seguito delle proteste di massa avvenute in Medio Oriente e Nord Africa dalla fine del 2010 evidenziano tragicamente l’urgenza di un efficace accordo globale sul commercio di armi» si legge nel documento. E ancora: «Le armi, le munizioni e l’equipaggiamento connesso impiegati contro i manifestanti sono stati venduti per buona parte da paesi europei, dalla Russia e dagli Stati Uniti». I compratori sono stati il Bahrain, l’Egitto, la Libia, la Siria e lo Yemen. L’unico Stato europeo capace di esportare, tra il 2005 e il 2010, verso tutti e cinque i governi è stato il nostro: nel solo 2010 sono state rilasciate autorizzazioni all’esportazione per 1,4 miliardi di euro.8 Più in generale, le aree di maggior «instabilità» – come il Nord Africa e il Medio Oriente – sono proprio i ricevitori privilegiati della produzione militare italiana.

Le regole dell’export italiano
Come avviene in qualsiasi altra transazione commerciale, per vendere legalmente armi all’estero occorrono un produttore, un acquirente, un intermediario ed eventualmente una banca che possa accompagnare, facilitare e seguire la definizione dell’accordo. La normativa italiana, e in particolare la già citata legge 185, disciplina i vari passaggi stabilendo una soglia minima di trasparenza e monitoraggio. Il primo step è la «registrazione». Il Registro nazionale delle imprese (Rni) è stato istituito dalla legge 185 al fine di censire tutte le aziende del settore. Al 31 dicembre 2011 risultavano iscritte 214 imprese, e solo queste possono chiedere l’autorizzazione a importare ed esportare «materiale di armamento». Dal momento che il mercato è sempre più aggressivo, un decreto di fine marzo del ministero della Difesa ha stabilito, come accade ogni anno, la quota di iscrizione. L’importo è incredibilmente basso: 260 euro. Il secondo passaggio è la richiesta di «autorizzazione».

Che significa? Poniamo che i vertici militari del paese X intendano acquistare presso l’impresa Y venticinque elicotteri militari. L’azienda è tenuta a informare il governo italiano del contratto in divenire con il cliente Y. La procedura tramite cui il nostro paese concede il lasciapassare si chiama appunto «autorizzazione». A rilasciarlo è un apposito settore del ministero degli Esteri, l’Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento (Uama). La presidenza del Consiglio non esplicita però quali criteri siano applicati per vagliare le singole commesse e autorizzare le esportazioni verso i paesi del Sud del mondo. Quando i velivoli sono pronti avviene la «consegna», anch’essa debitamente comunicata agli organi competenti previsti dalla legge 185. Per vari motivi (industriali, contrattuali, di opportunità politica), solo alcune delle autorizzazioni si tradurranno in consegne effettive: questo è il motivo per cui nei rendiconti annuali le prime sono sempre più elevate rispetto alle seconde. È importante tenere sempre presente questa distinzione, che ricalca il corso naturale della filiera: prima si riceve l’ordine, poi si produce, si consegna e quindi si incassa. Anche se non tutte le autorizzazioni si traducono in «prodotti» effettivi, il dato che le riguarda è significativo perché rispecchia la strategia delle nostre istituzioni in fatto di politica estera e di difesa. A cavallo tra il 1990 (anno di entrata in vigore della legge 185) e il 2011, lo Stato ha autorizzato l’esportazione di armamenti a scopi militari per un volume pari a 44 miliardi di euro.

Oltre alle cifre, quel che interessa è il trend, italiano ma anche europeo. Come sappiamo, l’Europa è leader nelle esportazioni d’armi: 164,9 miliardi di euro tra il 2006 e il 2010. Il 14,1 per cento di questo «risultato» è merito nostro, mentre il 35,6 e il 14,7 per cento sono rispettivamente forniti da Francia e Germania. Il dato italiano, che mostra un’accelerazione netta a partire dal 2005, ben si inserisce nel contesto europeo, anch’esso caratterizzato da un forte incremento nel periodo 2005-2011. Ma le industrie del settore non sono soddisfatte.

La Relazione di esercizio 2010 firmata dalla Federazione aziende italiane per l’aerospazio, la difesa e la sicurezza (Aiad), allora presieduta dall’ex guida di Finmeccanica, Pier Francesco Guarguaglini, chiede «risorse economiche sicure, sufficienti a sostenere il varo in Europa dei programmi prioritari per l’Italia» e auspica «l’adeguato supporto del sistema paese, tale da mantenere credibili le nostre soluzioni, sostenere i nostri programmi sia in Europa sia sui mercati d’esportazione, affermare le nostre eccellenze, difendere le nostre posizioni nei confronti degli inevitabili attacchi di altre nazioni egualmente organizzate». Una richiesta, quella dell’Aiad, che traduce in termini crudi la concezione che le aziende del settore hanno del valore dell’export nostrano: puro e semplice business, da realizzare mediante l’apporto del «sistema paese», ovvero lo Stato. Un obiettivo distante dall’assunto originario della legge 185, la quale, all’articolo 1, collega strettamente l’esportazione delle armi alla politica estera e di difesa italiana, impiegando a tal riguardo il termine «conformità». Secondo le indicazioni del legislatore – che aveva bene in mente i problemi della Guerra fredda e gli scandali «armati» che avevano coinvolto anche il nostro paese –, la produzione e la vendita di prodotti delicati come gli armamenti da guerra non dovrebbero dipendere solo da ragioni di mercato e di profitto, ma anche da precise scelte in materia di politica estera e di difesa.

Secondo l’Aiad, invece, per sostenere le industrie delle armi bisogna essere competitivi e allargare i mercati grazie al ruolo attivo dello Stato. Si giunge così a quella che Giorgio Beretta ha definito «una preoccupante inversione di tendenza nei paesi destinatari di armamenti italiani». Se dopo l’introduzione della nuova legge le vendite ai paesi del Sud del mondo si sono in una prima fase ampiamente ridotte, negli ultimi anni la prepotenza delle logiche commerciali ha spezzato questo riequilibrio. Così anche paesi poco integrati con la nostra politica estera (perché, per esempio, estranei alla Nato) hanno acquisito una grande importanza come clienti, a prescindere dai regimi che li guidano e dalle ragioni che li inducono a imbracciare le armi.

Il ruolo delle banche
Produttori, supervisori, acquirenti. Nessuno degli affari ricordati potrebbe trovare uno sbocco senza il determinante appoggio bancario. Contributo che è possibile (ri)conoscere grazie a un apposito articolo della legge 185.9 A partire dai dati disponibili, ogni anno le associazioni pacifiste, tra cui la Rete italiana per il disarmo, compilano e commentano la «classifica » delle principali banche che «concedono» conti correnti sui quali far arrivare i pagamenti delle forniture di armi. Sono le cosiddette «banche armate» al centro della mobilitazione avviata nel 1999 dalle riviste «Missione Oggi», «Mosaico di pace» e «Nigrizia» alla vigilia del giubileo della Chiesa cattolica del 2000. La campagna di pressione era stata lanciata per stimolare nei consumatori un atteggiamento responsabile nella gestione dei propri risparmi.10 L’effetto dirompente dell’iniziativa emerge dalla reazione della stessa Aiad. Nella citata Relazione di esercizio 2010 la federazione delle aziende d’armi segnala «il problema delle banche etiche che, professandosi “non armate” (sic), hanno sospeso ogni transazione di esportazione, pur già disciplinata nel rispetto della legge 185/90. In maniera ricorrente l’Aiad ha rappresentato la propria preoccupazione per l’amplificarsi delle conseguenze derivanti alle imprese». Dunque le banche «etiche» sarebbero un preoccupante problema.

E quelle «non etiche»? L’ultima fotografia disponibile del sostegno bancario agli incassi «armati» è quella del 2011, estrapolata dai dati forniti dalla relazione governativa pubblicata nel 2012. Nel 2011 la movimentazione finanziaria totale associata agli istituti di credito coinvolti nel commercio di armi tricolori è stata di oltre quattro miliardi di euro, dei quali 2,5 relativi a operazioni di esportazione (definitiva e temporanea) e i restanti 1,5 derivanti da importazioni di materiale d’armamento. Come accennato in precedenza, il valore complessivo «autorizzato» è in tendenziale aumento e ciò è confermato anche dai bonifici di pagamento. Le campagne di pressione citate hanno avuto l’effetto di accelerare l’internazionalizzazione dei processi: le banche che gestiscono i flussi sono sempre più colossi internazionali. Guardando alle sole esportazioni definitive, sei istituti bancari movimentano l’80 per cento (1,9 miliardi di euro) dei flussi. Davanti a tutti è Deutsche Bank, per un totale di 665 milioni di euro nel 2011 (erano 78,4 milioni nel 2006).

Se consideriamo invece i valori relativi a più istituti appartenenti a uno stesso gruppo, al primo posto si colloca (confermando il trend degli anni precedenti) l’alleanza Bnp Paribas e Banca Nazionale del Lavoro (Bnl). La succursale italiana della banca francese ha avuto autorizzazioni per 491 milioni di euro (contro gli 862 del 2010), mentre la controllata Bnl si porta in casa 223 milioni di euro (più del doppio del 2010): il totale del «gruppo» tra il 2006 e il 2010 è pari a 3,7 miliardi. Sopra i 100 milioni di euro altre due banche estere come Barclays Bank (185 milioni) e Crédit Agricole (175 milioni, contro i 104,2 del 2010), mentre per i colossi italiani (che tra l’altro partecipano a percorsi di trasparenza importanti e ben strutturati) vi sono dati divergenti. Se gli sforzi «non armati» fatti dal gruppo Intesa Sanpaolo paiono premiati (solo un’autorizzazione per 4000 euro nel 2011, quando al 2010 la quota era di 186,1 milioni di euro), è Unicredit ad avere ancora «in pancia» diverse operazioni: circa 180 milioni di euro autorizzati, un’eredità alla quale il gruppo resta nei fatti fedele (circa 900 milioni di euro le operazioni tra 2006 e 2010).

Prendendo in esame i 13,2 miliardi di euro di operazioni autorizzate per l’esportazione di armamenti italiani tra il 2006 e il 201011 si nota l’evoluzione che ha condotto alcuni istituti (Credito Valtellinese, Banco popolare, Banca Intesa, poi divenuta Intesa Sanpaolo) a «modificare» il proprio approccio agli affari militari fino a diramare specifiche direttive che hanno portato a una forte contrazione dei servizi per l’esportazione di armamenti italiani. Non si è trattato di un’improvvisa folgorazione lungo la via della finanza etica, ma di un graduale convincimento degli istituti appena citati che, valutando il costo di certi tipi di affari in termini di immagine, hanno deciso di modificare il proprio approccio a questo comparto scegliendo di eliminare o ridurre drasticamente le relative operazioni. Salvo poi parteciparvi per altre vie, per esempio attraverso la banca Ubae Spa, nata nel 1972 come Unione delle banche arabe ed europee e ritenuta il vettore attraverso il quale si sarebbe perfezionato il pagamento di un carico di armi Beretta diretto al regime libico nel 2009.

L’istituto di credito, che tra il 2006 e il 2010 ha autorizzato operazioni per 107,4 milioni di euro con 151 milioni di capitale sociale (al 2010), è finito in amministrazione straordinaria nell’aprile del 2011 per iniziativa del ministro dell’Economia e delle finanze su proposta della Banca d’Italia. L’azionista di controllo del gruppo, la Libyan Foreign Bank, è stato congelato perché ritenuto «entità legata al regime libico». All’interno della compagine societaria della banca si ritrovano le italiane Unicredit (al 10,79 per cento), la Sansedoni Siena (3,67 per cento) e Intesa Sanpaolo (1,8 per cento). Le «grandi imprese italiane» sono rappresentate dal gruppo Eni (5,39 per cento) e Telecom Italia (1,8 per cento).

Lascia interdetti la fotografia del 2009 che ritrae Pier Francesco Guarguaglini, allora plenipotenziario di Finmeccanica, nell’atto di sottoscrivere una joint venture proprio con la Libia per 20 miliardi di dollari. Al suo fianco è seduto Mustafa Zarti, allora viceamministratore delegato e membro del cda della Libyan Investment Authority (Lia), la cassa del Colonnello, cioè il braccio operativo attraverso cui l’ex partner politico ed economico del nostro paese deteneva quote di Unicredit, una delle due più grandi banche italiane.12 Un intreccio che legava uno dei regimi più repressivi del mondo a un nostro istituto di credito e a un’azienda controllata dallo Stato.

 

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