Chi segue il mio blog con un po’ di continuità magari ricorda che sto leggendo “Joseph Anton”, il memoir di Salman Rushdie uscito da poco per Mondadori. E’ lunghetto (più di 600 pagine), e siccome sto leggendo anche altro (un libro di Piero Ignazi dal titolo “Forza e legittimità – Il vicolo cieco dei partiti” – Edizioni Laterza) e sono molto in giro per le mie attività… non l’ho ancora finito :)

Ieri sera mi sono imbattuto nelle frasi che sto per riportare. Riguardano un suo intervento pubblico in America, uno dei primi che, dopo due o tre anni di segregazione forzata a seguito della fatwa, ebbe la possibilità di fare senza il veto rigorosissimo posto dall’apparato di guardie del corpo a sua difesa, che lo costringeva a una vita fantasmatica. Tale intervento era una occasione importante per lui, poiché sentiva di dover e poter attenuare le conseguenze di quello che nel libro viene chiamato “un grosso errore”, compiuto quando, su suggerimento di personaggi loschi e ben poco disinteressati, e a seguito di ragionevolissime incrinature nella sua forza d’animo, accettò di ostentare vaghe forme di pentimento per aver “offeso” la religione musulmana, al fine di arrivare alla cancellazione della fatwa stessa. Una sorta di abiura forzata di cui si pentì amaramente, poiché non portò a nessun risultato e lo macchiò dell’onta di aver sconfessato il suo credo: l’assoluta libertà di parola e l’assoluta libertà di lettura. (“I lettori nascono liberi e devono rimanere liberi” V. Nabokov)

(Precisazione: in tutto il libro Rushdie adotta lo stratagemma di parlare in terza persona singolare. Dunque “lui, egli, suo” equivalgono a sé stesso)

Ecco l’estratto: “Giunse il momento del suo discorso… Il linguaggio dei discorsi politici gli era alieno. Era abituato a forzare i limiti della lingua, a farne sprigionare quanto più senso riusciva, prestando orecchio anche alla musicalità delle parole, oltre che al loro significato; ora invece doveva parlare in modo lineare. “Dì quel che intendi davvero”, gli suggerirono, “spiegati, argomenta, non nasconderti dietro alla tua narrativa”. Era di qualche importanza il fatto che uno scrittore venisse in questo modo denudato, spogliato della ricchezza del suo linguaggio? Sì, eccome, perché la bellezza tocca corde profonde del cuore umano, apre le porte dello spirito. La bellezza conta perché è gioia, e la gioia era la ragione che lo spingeva a fare quello che faceva, la gioia delle parole e quella che lui provava nell’usarle per raccontare storie, per creare mondi, per cantare. Ma la bellezza, al momento, era considerata alla stregua di un lusso di cui avrebbe dovuto fare a meno; un lusso, già, forse una bugia. Bellezza era menzogna, squallore era verità”.

Bellezza, dunque, era menzogna, squallore era verità… Eppure la gente vuole la verità (con o senza virgolette, fa uguale), e discorsi e scritti lineari, facili, essenziali, semplici, senza fronzoli (l’effetto del forzare i limiti della lingua e la ricerca della musicalità delle parole vanno senz’altro annoverati tra i fronzoli, secondo questo comune sentire), utili, senza pippe mentali (così leggo qua sotto spesso, fra i commenti).

Non futili insomma.

E se la gente vuole verità, vuole dunque lo squallore?

Mi è piaciuto molto leggere nelle parole di Rushdie che “la bellezza conta perché è gioia”: una chiave di lettura a cui non ero arrivato, ma così felicemente vera. Gioia? Certo: la gioia delle parole, nella fattispecie, della creazione al suo zenit di applicazione, alla ricerca dei limiti della lingua per forzarli e farne sprigionare quanto più senso si riesce, cercandone l’esito anche musicale. E, per derivazione, la gioia della condivisione, di un piacere di fruizione ottenuto con la pazienza di chi non teme di “perdere” tempo in cose che non “servono” in quanto futili, non pratiche. E a cosa non servirebbero? Alla catena di montaggio della produttività (produrre, produrre, produrre…), basata sulle cose tangibili e finalizzata a portare risultati materiali. Catena di montaggio che obbliga a non poter e non voler dedicare minuti sacri allo star dietro agli incanti di un passaggio musicale inebriante, dietro ai funambolismi verbali di un talento letterario che non ha idee preconfezionate da elargire ma stile, dietro alle circonvoluzioni fantasiose dei ragionamenti, dietro ai dettagli nascosti di un dipinto, dietro alla poetica lentezza di un film, dietro ai (e dentro i) labirinti del gioco. E quant’altro.

(“Passeggiare sulla scia di sé stessi… Questa è la vera gioia” A. Puskin)

Ricordo bene quando mi inoltrai qualche post addietro nei meandri del discorso della musica in rete al giorno d’oggi, lamentando l’assenza di comprensione dei più relativamente agli scompensi provocati dalla gratuità d’accesso a qualsiasi pezzo musicale. Un tale mi rispose così: “E’ finita la pacchia: A LAVORARE!”. Ecco, a un sacco di persone piace (s)ragionare in questo modo, ed è anche per questo motivo che viviamo in un mondo isterico e cattivo (come già ebbi occasione di dire accennando alla bontà del mondo negli “a parte” dello spirito).

Nell’inutilità presunta della ricerca del bello, nella fertilità del tramestio della fantasia, s’annida e scalpita l’utilità dell’approdo a cui essa porta: la saggezza.

Bellezza

“Noi cerchiamo la bellezza ovunque

e passiamo spesso il tempo così

senza utilità

quella che piace a voi”

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