Tucidide, lo storico e generale ateniese, a proposito delle vicende della metà del IV secolo a.C. scrive che Temistocle consiglio che “tutti aiutassero a costruire le mura, quelli che erano in città, senza distinzione: uomini, donne e fanciulli, senza alcun riguardo per edifici privati o pubblici, se se ne potesse trar qualche giovamento per la costruzione, magari tutto abbattendo”. Nel periodo tardo repubblicano fu eretto a Copia, un emiciclo. Nel muro perimetrale di questo fu reimpiegato in grande quantità materiale proveniente da edifici di epoca arcaica.

Riutilizzi di materiali costruttivi precedenti sono frequenti in tutto il mondo antico. Ovunque. Naturalmente anche a Pompei. Dove sono chiaramente leggibili le più svariate e originali soluzioni di restauro, con materiali spesso di recupero, adottate dopo il violento terremoto che nel 62 devastò la città e la regione vesuviana. Così i muri nei quali si erano aperte brecce più o meno grandi furono riparati costantemente con materiali recuperati tra le macerie. Camminando per la città antica se ne vedono esempi nella III regio ma anche nella VI, nell’VIII e nella IX. Questo recupero dei materiali crollati fu un fatto sistematico. Confermato dalla scoperta di un deposito di materiali istallato all’esterno delle mura settentrionali.

A distanza di millenni è legittimo chiedersi se ci sia una tacita continuità tra il passato e il presente della città campana. Se i pezzi che Pompei continua a perdere, i crolli che la mutilano con impressionante frequenza, non siano poi molto dissimili da quelli del passato. Il dubbio che l’impotenza del tempo che fu non sia poi così dissimile da quella dell’oggi appare motivato. Il sospetto che le macerie causate dai disastri dell’antichità, come quelle del presente, possano essere considerate materiali da riutilizzare, fondato. Come spiegare altrimenti che le uniche notizie provenienti da quel sito archeologico si riferiscono a nuovi crolli? Non solo parti delle domus del Moralista nel novembre 2010, dei Gladiatori nel dicembre dello stesso anno, di Diomede nell’ottobre 2011, delle mura nei pressi di Porta di Nola e della domus di Loreio Tiburtino nel dicembre dello stesso anno.  Ma anche, ora, un tratto della domus lungo il vicolo di Modesto, nella VI regio.

Pompei continua a sbriciolarsi nonostante ad occuparsene non sia più il “cattivo” Sandro Bondi, Ministro dei Beni e delle Attività Culturali al tempo del monarca Berlusconi. Nonostante le cure della città antica più importante al mondo siano passate nelle mani di Lorenzo Ornaghi, Ministro competente del governo Monti. Soprattutto colpisce, a prima vista, che la cancellazione di parti significative di Pompei si producano a dispetto del reclamizzato Piano di salvaguardia progettato da Ornaghi, insieme ai ministri competenti per l’Istruzione, la Coesione territoriale, lo Sviluppo economico e gli Interni. Il Grande Progetto Pompei. Uno strumento, nelle intenzioni del Governo, per provvedere efficacemente a togliere dall’emergenza uno dei patrimoni archeologici tutelati dall’Unesco. I suoi circa 65 ettari di estensione, le sue bellezze diffuse. Con quasi 2 milioni e mezzo di presenze annue, il secondo sito italiano in quanto a visitatori dopo il Colosseo. Un progetto avviato con l’idea di aprire una nuova stagione. Nella quale i guai del passato fossero accantonati. Guai prodotti, a dispetto di risorse finanziare ridotte in relazione alle esigenze. Ma comunque giunte (e viene da pensare, mal impiegate). 

Basti pensare che tra il 2000 e il 2006 la politica regionale europea ha sostenuto 22 progetti di restauro nel sito di Pompei per un valore di 7,7 milioni di euro, sulla base di un cofinanziamento del 50% del costo totale.

Quindi (presunta) mancanza di sufficienti risorse. Ma anche una certa incapacità di gestione del sito.  Con restauri protratti molto oltre i termini preventivati, o realizzati in maniera opinabile (é il caso del Teatro Grande), aree ufficialmente “chiuse” alla visita, ma che, alle volte, vengono riaperte, ai più “generosi”, cumuli di macerie all’interno di botteghe in attesa di interventi, recinzioni divelte, strade sbarrate senza alcuna giustificazione.

Tutto questo, spazzato via dal “Grande Progetto Pompei”, sostenuto, almeno in parte, dall’investimento di 105 milioni di euro ”combinando contributi Ue e nazionali”, approvati il 29 marzo u.s. dalla Commissione Ue nell’ambito del progetto ”preservazione, mantenimento e miglioramento” del sito archeologico.

Il problema è che l’intero progetto, perfetto nella sua articolazione, forse efficace nelle tempistiche, mostra le sue fragilità. Nascoste ma esistenti. Mancano informazioni circa lo strumento sul quale si è deciso di incardinare l’intero progetto. Cioé sulla “Carta del rischio archeologico”, realizzata nei mesi scorsi dalla Soprintendenza. Strumento che finora, nonostante la sua rilevanza sia a fini conoscitivi che  conservativi, é rimasto appannaggio di pochi, come ha avuto modo di affermare il Soprintendente  archeologo di Pompei Dott. ssa. Teresa Cinquantaquattro (“la mappa del rischio è un documento tecnico che non tutti possono visionare”). Sarebbe invece assai utile conoscere la mappatura delle diverse criticità, senza dubbio realizzata con controlli specifici in loco, direttamente su ogni singolo monumento. Tanto più che essa risulterà certamente corredata non solo di documentazione fotografica, ma anche di rilievi sistematici di dettaglio delle diverse parti della città.

In attesa di nuovi annunci e chiarimenti, di rassicurazioni e la partenza delle fasi esecutive del Progetto, Pompei continua a perdere pezzi. E la cosa comincia a fare quasi meno notizia. Sui media. Speriamo davvero che non si miri a produrre ancora macerie. Da riutilizzare altrove. Per costruire qualcos’altro. In quel caso l’emulazione delle pratiche dell’antichità sarebbe completamente errata.

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