Questa è la storia di Miguel. Chi racconta si chiama Carlos. È uno che cerca di salvare vite a Ciudad Juarez, in Messico, dove la criminalità è giovane e anche la morte è giovane. Devo precisare che Carlos ha un ruolo pericoloso e importante e ha raccontato questa storia in una sede istituzionale. Dunque Miguel. Ha undici anni, ha i voti migliori della sua scuola. Gli è stato detto di iscriversi al ginnasio. Miguel si presenta con la sua pagella e viene accolto bene. Sessanta dollari. Vogliono sessanta dollari per la quota di iscrizione. Si, era gratuita l’istruzione in Messico, ma adesso c’è la crisi, e c’è una tassa da pagare subito. Il padre di Miguel è stato ucciso da tempo, lui neppure ricorda. La madre dice “no, è impossibile. E i tuoi fratelli? Cercati un lavoretto.” Miguel sa dove andare. Va da Santos, il giovane ventenne che controlla la strada. Va da “uno di loro”, tutti ventenni che organizzano la vita e il da fare dei ragazzi e dei bambini del barrio. Sa che Santos lavora per altri che a loro volta lavorano per altri, con Suv sempre più grandi e ville sempre più belle e lontane. Miguel è realista e ostinato.

Si rivolge al giovane capo con una domanda precisa: “Devo fare qualche lavoretto. Mi servono sessanta dollari.” La risposta è immediata: “Bravo. Li puoi fare con un solo lavoro, io pago subito. Va bene stasera?” Per Miguel va bene. Il giovane indica la strada, la casa, il nome della persona da uccidere, mostra la foto e consegna la pistola al bambino. Miguel è puntuale e preciso. Spara, uccide, torna senza correre, incassa la sua paga e il giorno dopo si iscrive a scuola. Adesso è al liceo. Ha sempre i voti migliori e andrà all’università, spiega Carlos. E il suo racconto esemplare. Quel racconto ci dice che non si esce gratis da un mondo completamente privatizzato che ti utilizza secondo il momento e il bisogno, e, quando non rendi, ti abbandona. Facile obiettare che stiamo parlando del Messico, Paese di avventure e malavita. Carlos, nell’incontro di cui sto parlando, era insieme a un prete italiano della associazione “Libera” di Don Ciotti, che in parti non remote e non sperdute dell’Italia conosce molte storie quasi identiche. Che cosa leghi Paesi tanto diversi lungo questa spirale di abbandono dei cittadini lo spiega Alessandro Monti in un suo libretto di apparente rigore universitario, (Crescita economica e violazione dei diritti umani in Brasile, Giuffrè editore) carico di storie che dimostrano una verità tragica e poco notata: non è la povertà la causa della violazione dei diritti umani e della manipolazione delle persone. Il fatto è che la crescita della ricchezza avviene in una situazione di totale separazione fra vite e istituzioni, fra leggi e persone, con la politica sottomessa e complice, mentre tutti fingono di credere che il privato sia la soluzione, che lo Stato sia il problema e che ci si debba liberare da diseducative tutele, che tolgono la voglia di darsi da fare. Giustamente osserva Alessandro Monti che il caso del Brasile (più ricchezza e più abbandono, anzi più sfruttamento ) è il caso di tutto il il cosidetto BRIC, ovvero i nuovi emergenti (Brasile, Russia, India, Cina). Solo in apparenza i Paesi del BRIC sono fondati su forte intervento o presenza dello Stato nella vita economica e nel welfare. Il meccanismo non è protettivo ma intimidatorio. Separa la ricchezza dal crescente tributo o rimborso che viene continuamente richiesto ai cittadini ” esclusi”, ovvero tutti tranne le varie classi dirigenti che sono in contatto tra loro e con il mondo. Si capisce, seguendo il percorso di Monti, che il rapporto fra ricchezza che cresce e violazione dei diritti umani che aumenta, è uno stato di necessità. Lo è perché la gestione dei rapporti tra fondi sovrani nel cielo alto della finanza del mondo ( che non è scambio di mercato ma un intrico di operazioni diverse che sfuggono a ogni monitoraggio) richiede di sospendere ogni regola e di diminuire la democrazia. La democrazia infatti interferisce, rallenta e può persino esigere ridistribuzioni che la nuova finanza giudica non accettabile.

Sull’altro versante, dell’accumulo e del dirottamento della ricchezza del mondo, da sottrarre alla produzione e dirigere verso la finanza in modo da isolare e rendere irrilevante l’attività manifatturiera, dunque la pretesa di chi lavora di prelevare quote di ricchezza come compenso, è utile citare Federico Rampini (Non ci possiamo più permettere uno Stato sociale. Falso, editore Laterza ) che rappresenta con esattezza il paesaggio visto dall’alto dei cieli della finanza globale, senza fissa dimora, deciso a smantellare dovunque ogni forma di intervento sociale: “Il modello sociale europeo soffoca la crescita sotto una pressione fiscale eccessiva, ingabbia le imprese in una ragnatela di regole e diritti sindacali paralizzanti, crea nei cittadini una cultura di dipendenza dallo Stato, ottunde lo spirito d’intrapresa, la capacità innovativa”. La descrizione, purtroppo esatta, indica l’impegno di rimuovere lo Stato come sostenitore della controparte, il lavoro. Dunque il vero intento è la abolizione del mercato, cominciando dal pilastro che regge lo stato democratico, il rapporto fra capitale e lavoro. Non è la fine del mondo. E non è neppure (o soltanto) la fine della mite socialdemocrazia di quasi tutti gli Stati democratici. È la fine del capitalismo. Si intravedono macerie. La storia di Miguel comincia qui, nel nuovo mondo, ricco, globale, senza fissa dimora e senza morale. A chi dovrebbe rendere conto? Tenetelo presente quando vi indicano questo nuovo mondo come il futuro.

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