Al di là dell’ex Cortina di ferro l’accusa è di “propaganda omosessuale”. In nove regioni l’omofobia di Stato è già in vigore: dai ghiacci siberiani di Novosibirsk alle atmosfere mitteleuropee di San Pietroburgo, a macchia di leopardo negli 83 soggetti che costituiscono la federazione è proibito parlare di omosessualità in pubblico. Ora, sotto le pressioni della Chiesa ortodossa e di gran parte dell’establishment politico, il bando potrebbe essere esteso all’intero territorio russo: il 19 dicembre, scrive il Guardian, il parlamento deciderà se rendere nazionale la legge che proibisce la “propaganda omosessuale”. A vent’anni dal giorno in cui l’omosessualità venne depennata dalla lista dei reati, nella Russia di Vladimir Putin tutto sembra pronto per un tragico salto indietro nel tempo: se sotto il regime sovietico la si scontava nei Gulag o in carcere, oggi l’omosessualità la si paga a furia di multe, isolamento sociale e silenzio.

La stretta è in atto da tempo. L’ultimo episodio il 17 agosto, quando il tribunale di Mosca confermava il bando deciso dal governo cittadino per proibire per 100 anni la sfilata del Gay Pride. Se allora lo scopo era quello di “evitare disordini pubblici”, ora la scusa per proibire la “propaganda omosessuale” è quella di difendere i minori. La stessa con la quale a luglio la Duma aveva approvato il progetto di legge n. 89417-6, che aveva permesso al governo di operare un giro di vite sulla libertà di informazione e su internet. La norma che approderà in parlamento è ricalcata su quella firmata a marzo dal governatore di San Pietroburgo e vieta “azioni pubbliche mirate a promuovere la sodomia, il lesbismo, la bisessualità e il transgender tra i minori”. Una formula tanto generica da bloccare qualsiasi tipo di manifestazione, dalle conferenze ai cortei: è sufficiente che un giovane al di sotto dei 18 anni si trovi nel luogo dell’evento. E che punisce i trasgressori con multe che vanno dai 5.000 (125 euro) ai 500.000 rubli (12.500 euro).

“Questa è una repressione condotta in base ad una logica fascista – ha spiegato al Guardian Igor Kochetkov, presidente dello Lgbt network – è una strana coincidenza che la legge verrà discussa il 19 dicembre, perché il 17 dicembre 1933 le autorità sovietiche dichiararono illegali le relazioni tra uomini. Dicevano che i gay erano alieni alla società sovietica. Oggi viene usata la stessa retorica”. Una retorica che fa presa in un paese che porta addosso i segni del passato regime e in cui l’omosessualità è comunemente associata alla pedofilia. Secondo un sondaggio diffuso agli inizi di novembre dall’agenzia demoscopica Levada in 45 regioni della federazione, i gay sono definiti “ripugnanti” per il 66% degli interpellati, tra cui il 71% degli uomini e il 61 % delle donne. E solo l’1% degli intervistati dichiara di avere rispetto per gli omosessuali.

La campagna per rendere nazionale la legge dura da mesi. Lo vuole gran parte della classe dirigente di Mosca, lo vuole l’attuale presidente della Federazione russa, Valentina Matviyenko. E lo chiede a gran voce da anni anche la Chiesa ortodossa: “La determinazione mostrata dai rappresentanti delle minoranze sessuali di continuare a manifestare davanti a istituti per l’infanzia, indica la tempestività di questa legge regionale, che dovrebbe ottenere status federale”, spiegava Dmitri Pershin, responsabile del dipartimento giovani della chiesa moscovita, dopo che il 29 febbraio a San Pietroburgo era stata approvata la legge, che “aiuterà a proteggere i bambini dalla manipolazione condotta da minoranze che promuovono la sodomia”.

Una restaurazione omofobica della quale San Pietroburgo è il centro gravitazionale, e che di recente ha risucchiato anche Madonna. Durante il concerto tenuto in città ad agosto, la pop star aveva chiesto che venissero rispettate le minoranze omosessuali e per questo era stata denunciata da un gruppo di attivisti anti-gay che avevano chiesto un risarcimento di 33 milioni di rubli (8 milioni di euro). Contro la città si è ribellata in questi giorni anche Milano, che con l’ex Leningrado è gemellata. “Giovedì 22 novembre – si legge sul sito dei Radicali – il Consiglio comunale ha approvato la mozione presentata da Marco Cappato, per la sospensione degli effetti del gemellaggio, fino a quando non sarà revocata la legge”. E iniziative analoghe sono in via definizione anche a Torino e a Venezia, dove due consiglieri comunali, Simone Venturini (Udc) e Camilla Seibezzi (In Comune) hanno chiesto di sospendere l’accordo perché “i gemellaggi non possono basarsi solo su interessi commerciali ed economici”.

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