Tutta colpa dell’aratro, verrebbe da dire. Stando a uno studio datato novembre 2012 e firmato dal professore di economia di Harvard, Alberto Alesina, la suddivisioni di ruoli tra maschi e femmine nel mercato del lavoro è collegata a doppio filo con le pratiche agrarie tradizionali di una determinata area geografica. In particolare, nei luoghi dove l’agricoltura era un tempo basata sull’utilizzo dell’aratro, e tra questi ci sono proprio l’Italia e gran parte dell’Europa, si riscontra una maggiore diseguaglianza di genere, con le donne che partecipano alla forza lavoro (ma anche all’attività politica) in misura minore rispetto alle aree coltivate in maniera nomade.

E, va da sé, l’esclusione femminile risulta tanto maggiore quanto più soffiano venti di crisi e i posti di lavoro scarseggiano. Il motivo del differente trattamento tra i sessi è presto detto: l’uso dell’aratro richiedeva una forza fisica maggiore dell’agricoltura itinerante, cosa che faceva sì che la moglie si occupasse quasi esclusivamente delle faccende domestiche. Una convinzione sociale, quella che vede la donna lavorare per lo più tra le mura di casa, che anche ai tempi nostri è dura a morire nei paesi dove si coltivava con l’aratro.

Qualcuno, poi, ricorderà la battuta della ministra dell’Interno, Anna Maria Cancellieri, secondo cui i giovani tendono a cercare lavoro vicino a mamma e papà. Ebbene, un altro studio, risalente a maggio 2012 e firmato dalle due ricercatrici economiche, Eva García-Morán e Zoë Kuehn, che si sono concentrate sulla Germania, mostra che la partecipazione al mercato del lavoro di quelle donne che vivono vicine ai genitori o ai suoceri, così da potere fare affidamento su di loro per la cura dei figli, è maggiore del 3% rispetto alle mamme che devono fare tutto da sole. Ma c’è un prezzo da pagare: i salari sono del 5% inferiori. Una lettura possibile di quest’ultimo fenomeno è che, pur di stare vicine ai genitori e di essere aiutate coi bambini, le donne tendono ad accontentarsi anche di impieghi meno redditizi.

Le due ricercatrici fanno una proposta concreta per rimuovere la penalizzazione salariale: lo Stato potrebbe sussidiare direttamente le famiglie perché possano prendersi cura dei bambini senza bisogno di dovere “dipendere” dai genitori. Una soluzione che, però, non incontra il favore di Alesina, nemico dichiarato della spesa pubblica. “Penso che la strada giusta per risolvere il problema delle disuguaglianze di genere nel mercato del lavoro – ha dichiarato Alesina durante un evento sul tema che si è tenuto il 28 novembre all’Università Bocconi di Milano – sia quella di tassare il lavoro femminile meno di quello maschile. Il sussidio mi pare una forma di ingegneria sociale che non tiene conto delle mille considerazioni anche culturali che entrano in gioco”.

Ma nemmeno la soluzione proposta dal professore di Harvard fa contenti tutti. “L’uso del sistema tributario in questo campo – ha spiegato Silvia Giannini, vice sindaco di Bologna e professoressa di economia all’Università della città – mi fa paura, anche perché ho il timore che venga meno il criterio di equità”. Paradossalmente, dunque, potrebbero finire per essere discriminati proprio gli uomini. “Senza contare poi – ha aggiunto Giannini – che in questi casi c’è il rischio di traslazione dell’imposta”. Vale a dire cioè che c’è la possibilità che il vantaggio fiscale vada tutto a favore dell’azienda. Secondo Giannini, per risolvere il problema, c’è bisogno, in generale, “di una maggiore flessibilità, che va dalla possibilità per la donna di fare il telelavoro e il part-time e arriva fino a una maggiore diffusione degli asili nido”. Se si tratta di strutture pubbliche, anche in questo caso, però, si potrebbe assistere all’aumento della spesa statale che tanto sembra impensierire Alesina. Insomma, gira che ti rigira, anche per risolvere la questione del lavoro femminile, il dilemma è sempre quello: meno tasse o più spesa pubblica?

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