drone-usaMolti articoli sono apparsi sui giornali, in particolare statunitensi, in questi giorni sul tema degli omicidi mirati.

Tra gli altri, va segnalata una lunga inchiesta del Washington Post che è stata ripresa da Internazionale di questa settimana, sotto il titolo “La lista segreta di Obama”. Vi si descrive come il governo Usa stia mettendo a segno in segreto la c.d disposition matrix, ossia “un sistema che renderà più facile individuare, catturare e uccidere i sospetti terroristi in ogni regione del mondo”. Il sistema si basa sull’uso massiccio di droni, ossia di aerei telecomandati a distanza. Il governo Obama ha molto intensificato il ricorso a tale strategia militare.

Il Washington Post stima che nei dieci anni trascorsi dal primo omicidio mirato portato a segno da un drone targato Usa contro presunti membri di Al-Qaeda in Yemen, oltre quattrocento operazioni sono state condotte dagli stessi droni in Pakistan, Yemen e Somalia. Circa tremila persone sarebbero già state uccise, inclusi “danni collaterali”, ossia civili innocenti, stimati nell’ordine delle centinaia.

La Süddeutsche Zeitung di ieri – in un articolo dal significativo titolo “Omicidi a piacimento” è più precisa sui numeri: il bilancio aggiornato sarebbe di 3375 morti, di cui almeno 885 civili e 176 bambini. Lo Special Rapporteur dell’Onu ha annunciato l’apertura di una indagine per il 2013, e una ricerca del Pew Research Centre del 2012 ha messo in luce che la maggioranza dell’opinione pubblica a livello internazionale disapprova questi attacchi.

Quel che è chiaro è che, anche negli Usa, la critica nei confronti di questa strategia sta crescendo proporzionalmente all’intensificarsi degli attacchi stessi.

Obama peraltro è il primo presidente americano che si è preso la responsabilità personale di esaminare le kill lists, approvarle e autorizzare gli attacchi (tranne che in Pakistan, dove, a quanto riportato, è il direttore della Cia a decidere quando e dove attaccare). L’amministrazione Obama si sta affannando negli ultimi tempi a trovare una base giuridica per tale strategia. I presupposti giuridici andrebbero ricercati nell’autorizzazione del Congresso, post 11 settembre 2001, all’uso della forza militare per fini antiterroristici ed il diritto all’autodifesa. E tuttavia tale giustificazione vacilla nel momento in cui gli obiettivi dei droni vanno ormai ben oltre il gruppo di cellule di Al-Qaeda responsabili degli attacchi dell’11 settembre.

La posizione prevalente tra i giuristi è nel senso che gli omicidi mirati compiuti dai droni non sono legittimi sotto il profilo del diritto internazionale. Nell’occhio del ciclone sono in particolare i c.d. signature strikes, ossia attacchi ove l’identità del bersaglio non è nota, ma l’operazione è autorizzata ugualmente sulla base di certe attività rilevate. In un recente articolo, Kevin J. Heller dell’Universitá di Melbourne descrive sulla base di una puntigliosa analisi dei precedenti in materia quattordici diversi tipi di attività che appaiono sufficienti per la Casa Bianca per autorizzare un omicidio mirato di qualcuno di cui non si conosce l’identità (un signature strike), tra cui: pianificare un attacco; trasportare armi; maneggiare esplosivi; essere in un compound o in un campo di addestramento di Al-Qaeda. Ma anche essere un uomo ‘in età militare’ in un’area in cui sono in corso attività terroristiche, essere in compagnia di miliziani o trovarsi a viaggiare armati in una zona della penisola arabica controllata da Al-Quaeda è sufficiente per diventare un ‘legittimo’ bersaglio dei droni.

A prescindere dall’essere stato identificato come terrorista/nemico. Sebbene, a parere dell’autore, in alcuni casi il ricorso agli omicidi mirati anche sotto forma di signature strikes potrebbe essere legalmente giustificato, la maggior parte degli attacchi non lo sarebbe. Questa posizione appare blanda rispetto allo studio pubblicato dall’ Università di Stanford lo scorso settembre che concludeva nel senso che il diritto internazionale umanitario (ossia quello che sia applica in tempo di guerra) permette l’uso intenzionale della forza letale solo quando strettamente necessario e proporzionato e che quindi ‘gli omicidi mirati’ come tipicamente intesi (nel senso di omicidi intenzionali e premeditati) non sono legali in diritto internazionale umanitario.

Quanto poi al diverso scenario, che non si tratti di un’operazione di guerra, bensì di un atto di ‘polizia’, al di fuori quindi di un conflitto armato riconosciuto come tale (come sarebbe, a parere di molti, la ‘guerra al terrorismo’ condotta dagli Usa), lo Special Rapporteur dell’Onu sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie nel suo Report del 2010 affermava: “In base al diritto dei diritti umani, un omicidio mirato, nel senso di un omicidio intenzionale, premeditato e deliberato eseguito da forze di polizia non può mai essere legale perché, a differenza che in un conflitto armato, non è mai permesso che il solo obiettivo dell’operazione sia l’uccisione”.

Negli Usa sono già partite le prime azioni legali per condannare il ricorso ai targeted killings. Purtroppo questa strategia militare, che era stata iniziata da Israele nei confronti di sospetti terroristi palestinesi, e che ancora dieci anni fa sembrava del tutto illegale, sta prendendo sempre più piede e mietendo sempre più vittime in zone remote e difficilmente raggiungibili anche ai media: oltre ai ‘presunti terroristi’ (privati del diritto a difendersi), centinaia di civili innocenti di cui peraltro mai conosceremo neanche il nome.

 

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