Le autobombe esplose a Damasco annunciano l’inizio della fine di Assad e l’ultimo capitolo della guerra civile che compirà 2 anni – e oltre 50mila morti – nell’invero che sta per arrivare. La capitale siriana è entrata nella spirale della guerra che la lega nelle immagini e nelle modalità alla città a cui è affratellata nel destino e nei legami storici: Beirut. Bombardamenti, attentati, combattimenti strada per strada che negli anni ’70 crearono l’immagine-simbolo di una città in preda alla distruzione compiuta dalle fazioni politiche e religiose: “Come è Beirut” è divenuto sinonimo di sangue e caos per ogni tipo di tragedia bellica o naturale. “Come a Damasco” potrebbe presto divenire un sinonimo efficace, replicando lo sfacelo prodotto dai combattimenti nelle altre città siriane: Homs, Aleppo.

La fase finale della guerra ad Assad e la strenua resistenza del regime alawita durerà mesi e il suo esito non è scontato, se non nella ferocia e assolutezza delle distruzioni che produrrà, e probabilmente non sufficienti perché la comunità internazionale – con l’America di un Obama al secondo mandato, storicamente più stimolante sul fronte internazionale – si convinca e s’arrischi a un intervento, almeno simile a quello libico (no-fly zone e aperto appoggio ai ribelli). La Siria non è la Libia, ben piantata com’è in mezzo al Medio Oriente e crocevia di traffici e alleanze che l’attraversano dall’Iran alla Palestina e il Libano, e confinando con Israele, e la Turchia (e legata alla questione del Kurdistan). In Occidente si calcolano costi e benefici di una nuova Siria libera dalla cappa della dinastia Assad ma in preda agli islamici: intanto la guerra fra ribelli e regime fa il suo corso.

 

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