Il doping nel ciclismo non è soltanto la revoca dei sette Tour de France a Lance Armstrong. E neppure i quasi 70 casi di positività riscontrati dall’Uci (Union Cycliste Internationale) negli ultimi tre anni. Il doping nel ciclismo dilaga nel mondo amatoriale: lo dimostra il caso di Lucia Asero, vincitrice del percorso medio all’ultima Granfondo Roma lo scorso ottobre, positiva all’Epo; come era stato trovato positivo Michele Maccanti nel maggio del 2010, appena due mesi prima di aggiudicarsi la prestigiosa Maratona delle Dolomiti. Anche questi sono solo i nomi prestigiosi. Poi ci sono le inchieste fra la gente comune, come quella della Procura di Torino nel 2011; oppure il caso del cinquantenne di Pavia diventato all’improvviso fenomeno e poi risultato positivo all’eritropoietina e al testosterone e condannato a 4 anni di squalifica. Il vero volto del doping nel ciclismo è questo: quello dell’impiegato di mezz’età pronto (chissà se consapevolmente) anche a rischiare la vita per andare più forte in gara alla domenica e vantarsi al bar con gli amici.

Sbaglia chi crede che il doping sia una pratica riservata ai campioni. E’ un fatto di costume, una maleducazione molto più diffusa di quel che si pensi. Quanto, precisamente, è difficile dirlo. Ma a sentire il parere dei cicloamatori – quelli puliti, che in questo sport ci credono ancora – vengono i brividi. “E’ una vita che vado in bici – racconta Alessandro, da Milano – prima come mestiere, adesso come hobby. E sono sicuro che ci sono più drogati tra gli amatori che tra i professionisti”. Lo conferma anche Michele di La Spezia, che corre con la Uisp (Unione Italiana Sport per Tutti), uno dei circuiti amatoriali italiani più importanti: “In gruppo si vedono cose strane: gente che fino al giorno prima era un paracarro e poi rifila venti minuti a tutti in salita. Raramente questi ‘miracoli’ sono frutto solo dell’allenamento. Credo che almeno il 15-20% dei ciclisti amatoriali faccia uso di sostanze proibite”. Ancor più pessimista Francesco Barberis, presidente dell’Udace (Unione Degli Amatori Ciclismo Europeo): “Probabilmente siamo anche sopra il 25%”. Un amatore su quattro: una stima agghiacciante. “Ma non sono un indovino, nessuno può dirlo”, chiosa Barberis.

Già, il punto è proprio questo: è solo la punta dell’iceberg e nessuno sa cosa ci sia sotto. Perché i controlli non esistono. O meglio, ci sono ma è come se non ci fossero. “Corro da 10 anni e non ho mai fatto un test anti-doping. E l’anno scorso solo una volta mi è capitato di assistere ad un controllo”, afferma Luca, dalla provincia di Varese. Non è questione di percezione, lo dicono i numeri. Nel 2011 il Ministero della Salute ha controllato 145 gare e 605 atleti. Peccato, però, che in Italia le gare amatoriali sfondino quota 5mila: nel 2010 solo l’Udace ne ha organizzate 3835. Così i 27 casi di positività riscontrati e la percentuale del 4,4% di dopati (che però nel 2010 saliva al 9%) sono un dato che significa nulla.

Per alcuni la colpa sarebbe delle associazioni, poco interessate a fare dei controlli costosi e che avrebbero il sicuro effetto di ridurre i tesserati. Ma forse le cose non stanno così. Luca Menegatti, dirigente della Uisp – Ciclismo, scarica tutta la responsabilità sul Coni (il referente in Italia della Wada, l’agenzia mondiale antidoping) e sul Ministero (incaricato dell’attività antidoping in ambito giovanile e amatoriale): “Anche se volessimo noi Enti non siamo autorizzati a procedere con i test. Chiediamo da anni una delega ma nessuno ci ascolta”. Lo dimostra il caso dell’Udace, che fino a 5-6 anni aveva organizzato una rete autonoma di controlli, appoggiandosi al Laboratorio di Firenze. Poi è arrivato lo stop: solo il Ministero può fare test antidoping presso il Centro dell’Acquacetosa, l’unico riconosciuto in Italia. La denuncia del presidente Udace Barberis è durissima: “Abbiamo dei soldi accantonati in anni di risparmi e saremmo disposti ad investirli tutti nei controlli. Ma non ce lo permettono, non ci riconoscono neanche come associazione perché sperano di fagocitarci e prendersi i nostri 50mila tesserati. E’ una vergogna”.

Al Ministero, però, non ci stanno a passare per colpevoli. Anzi. Renato Piccinin, Segretario della Commissione di Vigilanza Doping, rivendica la qualità dei controlli effettuati ed espone al fattoquotidiano.it la posizione del Dicastero: “Non bisogna dimenticare che noi copriamo tutti gli sport, non solo il ciclismo. Le nostre possibilità sono queste: abbiamo due milioni di euro di finanziamenti all’anno, con cui dobbiamo fare anche attività di ricerca e formazione. Per i test abbiamo circa 1 milione e 200 mila euro, e vi garantisco che li spendiamo fino all’ultimo centesimo”. Alla fine è tutto un problema di soldi, dicono: “Un test può costare fino a quasi mille euro. Per fare controlli a tappeto ci vorrebbe un budget che non abbiamo”. Mentre sull’ipotesi di allargare i cordoni dell’attività antidoping dal Coni tagliano corto: “Solo il Coni attraverso le Federazioni e il Ministero possono fare controlli, e il centro dell’Acquacetosa è l’unico autorizzato in Italia. Non si può derogare: le regole sono queste e non le abbiamo fatte noi, ma la Wada”.

In questa catena di vincoli e deferimenti la colpa è di tutti e di nessuno. Ma il sistema non funziona e, senza controlli, nel ciclismo amatoriale continua a circolare di tutto; specie eccitanti e ormoni (tra cui la famosa eritropoietina). Ci sono amatori malati al punto da spendere cifre importanti per doparsi: circa 500€ per un ciclo di epo, fino a 3-4mila euro per coprire la stagione. E rischiare la vita: “Perché il doping amatoriale non è come quello dei professionisti, è un doping ‘casereccio’ e molto pericoloso”, spiega il dottor Aldo Rosano, autore della ricerca Il doping nello sport amatoriale per l’Istituto Italiano di Medicina sociale.

“E proprio perché non si tratta di un doping scientifico, insieme alle giuste campagne di educazione alla salute basterebbe una fitta rete di controlli per scoraggiare il fenomeno”, aggiunge il dottor Andrea Ferella, responsabile della commissione scientifica dell’Udace. Ma i controlli, purtroppo, non ci sono. E la conclusione è molto amara. “Noi il nostro calendario non lo comunichiamo neanche più al Coni, tanto è inutile”, afferma sconsolato Barberis. “Ma i pochi che vengono presi positivi dal Ministero con noi non correranno mai più. E con i soldi che abbiamo da parte finanzieremo progetti per la prevenzione. E? tutto ciò che possiamo fare”. Ma difficilmente basterà per guarire il ciclismo.

Articolo Precedente

Da mago dei videogame ad allenatore? La ‘bufala’ di Vugar Huseynzade

next
Articolo Successivo

Argentina, dopo trent’anni i tifosi riportano il San Lorenzo de Almagro a casa

next