Per uscire dalla persistente spirale di incertezza, crisi debitoria, disoccupazione e recessione, l’area euro avrebbe bisogno di una valuta capace di comportarsi come la defunta lira italiana. Ma, sfortunatamente, la moneta unica appare oggi ancora troppo simile al marco tedesco di cui pare replicare la tendenza all’apprezzamento sui mercati con tutte le ovvie conseguenze del caso in termini di crescita e competitività. È la sintesi dell’ultima analisi proposta da Bloomberg sulla base dei dati ricavati dall’Oecd. L’euro, sostiene quest’ultimo, viaggia oggi a un livello superiore del 5,5% rispetto alla media storica di 1,21 dollari. Il che, in rapporto al potere d’acquisto, significa che la moneta unica risulta a oggi sopravvalutata del 2,6% rispetto al biglietto verde.

Che cosa significa? Essenzialmente che l’euro vale troppo rispetto a quello che dovrebbe essere il suo valore reale. Ovvero, in estrema sintesi, che le nostre esportazioni hanno un costo eccessivo. Tradotto: siamo scarsamente competitivi. Interpellato da Bloomberg, Ulrich Leuchtmann, analista del settore valutario presso Commerzbank, non sembra avere dubbi: “L’euro non è sostenibile a questi livelli nel medio e lungo termine” ed Eurolandia, dal canto suo, avrebbe bisogno di una moneta unica “più simile a ciò che era stata la lira prima del 1999 piuttosto che al marco tedesco”.

Nel settembre del 1992, ricorda Bloomberg, l’Italia svalutò la lira del 7%. Quattro anni dopo la valuta italiana aveva perso oltre il 20% del suo valore rispetto al marco. La strategia è piuttosto semplice: una moneta più debole, per lo meno entro certi limiti, riduce il peso del debito sui mercati internazionali (sempre che il debito sia espresso in quella stessa valuta, motivo per il quale è possibile svalutare l’euro ma non è possibile reintrodurre lire, dracme o pesetas senza produrre default e inflazione a doppia cifra) e favorisce le esportazioni. Banalmente, se per acquistare un prodotto da 100 euro servissero da domani non più 129 dollari (l’attuale tasso di cambio 1,29 a 1) ma 121 (il tasso “storico” che è mediamente più basso), lo stesso prodotto da 100 euro realizzato in Italia, Spagna o Germania diventerebbe più conveniente sul mercato estero favorendo così il flusso commerciale delle merci in uscita dall’Europa.

 L’esempio è volutamente semplicistico. Ma il principio che lo regge è alla base delle bilance commerciali nazionali e degli equilibri del mercato internazionale. La teoria ci dice che in un contesto di crisi, l’aumento della sfiducia produce svalutazione e la svalutazione (quando non è eccessiva come nel caso delle bancarotte da iperinflazione) produce un vantaggio competitivo e commerciale che alimenta la crescita conducendo l’area in questione fuori dal tunnel recessivo. Sfortunatamente, in Europa sta accadendo l’esatto contrario.

Dallo scorso 26 luglio, giorno della celebre rassicurazione di Mario Draghi ai mercati (“La Bce farà tutto quanto è necessario per preservare l’euro e, credetemi, sarà abbastanza”) l’euro ha guadagnato il 4,2% sul dollaro. Da allora, il numero uno Bce ha ridato il via libera all’acquisto dei titoli di Stato da parte dell’istituto centrale senza fare venir meno, tuttavia, il sacro principio della sterilizzazione della liquidità che consente di mantenere costante la quantità di moneta circolante. Ovvero di ridurre al minimo l’inflazione (che aumenta all’aumentare della massa monetaria in circolazione). L’obiettivo primario, come è noto, è stato raggiunto. La temuta tempesta di agosto non è mai arrivata, gli spread sono calati e con essi si è alleggerito il peso dei deficit nazionali in rapporto al Pil. Ma ciò che ha guadagnato in termini di stabilità l’Europa sembra averlo già scontato sul fronte della competitività. Con il rischio di far passare in secondo piano l’allarme debito di fronte a un’emergenza sempre più pressante: quella della recessione.

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