Più che in passato, pare, l’amore è un sentimento complicato e difficile da gestire e, il più delle volte, fa star male. Un’esperienza generale, in fondo banale e quotidiana, che ora ha la sua base in forma di spiegazione scientifica, di ricerca sociologica. La leggo nel voluminoso lavoro della sociologa Eva Illouz, docente dell’Università di Gerusalemme:

Questa sociologa si occupa da tempo delle emozioni e del loro rapporto con la società ed un suo precedente libro è uscito anche in italiano: la sua tesi è che nella modernità viviamo intrappolati in una rete di pratiche sociali e culturali che provocano una tensione tra aspettative e immaginazioni opposte, che inoltre pretendiamo da noi stessi di risolvere, nella vita individuale.

Il valore dell’autonomia della persona, ad esempio, si scontra, se la vogliamo rispettare in noi e nell’amato, con il nostro bisogno di sicurezza, di farci quindi promesse e impegno a vicenda. Ma promettere implica il credere di essere in grado di sentire allo stesso modo in futuro i sentimenti amorevoli che sentiamo oggi, se intendiamo rispettare anche l’esigenza di autenticità. La libertà non è un valore astratto, ma una pratica culturale e istituzionalizzata, che condiziona le categorie e i concetti di volontà, libertà di scelta, di desiderio e delle emozioni. Tendenzialmente, nel mondo di oggi, una scelta non è mai definitiva: è sempre possibile ottimizzare la propria vita, incontrare prima o poi una persona “più adatta” a noi. Nell’enorme ricchezza di possibilità ed opzioni aperte, le persone riflettono così sulla base di confronti razionali, e perdono la capacità di decidere in modo immediato e intuitivo.

Il nostro sé sociale è una “istanza pragmatica” un qualcosa che si crea nell’interrelazione con le situazioni e le scelte degli altri, mentre, se ci osserviamo per identificare i nostri bisogni e desideri, tendiamo a interpretarle come stabili. Un malinteso cognitivo di fondo, insomma, dato che bisogni e desideri sono risposte a situazioni in movimento.

Per cui la tendenza stessa all’introspezione contribuisce a bloccare la capacità di sentire “in diretta” quei sentimenti che ci orientano in modo non-razionale.

La nostra pretesa di ottimizzare la nostra vita realizza così una ricerca continua, una cronica insoddisfazione e l’impossibilità di accontentarci e sentire il valore di quel che esiste già, nella nostra esistenza.

Nella nostra vita ci identifichiamo con le nostre “narrazioni”, e queste sono “legate indissolubilmente alle finzioni dei media e del consumo culturale”. Per cui i nostri sentimenti, che pure ci sembrano così unici e privati, rispecchiano i concetti e i valori delle storie in circolazione, che assorbiamo nella nostra “socializzazione emozionale”.

Da un punto di vista storico vorrei aggiungere che fino a poche generazioni fa la frase “finché morte non vi separi” aveva un significato ben diverso da oggi: le donne morivano di parto, gli uomini in incidenti sul lavoro, entrambi di infezioni banali e di polmonite, e, se invece si sopravviveva, si era “vecchi” a cinquant’anni: il “turn over” della vita la accorciava sensibilmente. E forse la stessa impressione generale di non avere alcun controllo su di essa permetteva il sentire più gratitudine, per il fatto stesso di esistere, e meno pretese di miglioramento.

Certo, sono considerazioni geralizzanti, per mettere in prospettiva storica e sociologica la nostra quotidiana inquietudine. Saperne i motivi, forse, ci fa sentire in buona compagnia, e ci aiuta ad osservarci dall’esterno: un’ulteriore razionalizzazione, un altro passo verso il capire, che ci allontana dal “semplice” e così difficile volerci bene? 

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