Sapete quanta precarietà c’è nei libri che leggete? Lo sanno bene nella Rete dei Redattori Precari (ReRePre), protagonista in questi giorni di un dibattito proprio sulla precarietà che regna sovrana nelle case editrici milanesi (e non solo).
Tutto è partito da una frase di Stefano Boeri, assessore alla cultura del Comune di Milano: “L’editoria è uno degli orgogli di Milano” aveva dichiarato commentando il successo di Bookcity.

Il commento non è piaciuto ai redattori precari che hanno risposto a Boeri con una lettera aperta: “Lei ha dichiarato che l’industria editoriale rappresenta uno degli orgogli di Milano. Lo sono anche i lavoratori precari che tengono in vita quel mondo? È chiaro che lei non ha idea di quali siano le condizioni economiche e lavorative che le case editrici milanesi, piccole e grandi, impongono ai tanti precari che assicurano gran parte della produzione editoriale…l’editoria è uno dei settori che più sta deprimendo le aspettative e i talenti di centinaia di lavoratori della conoscenza, giovani e non”.

Boeri ha risposto a stretto giro di posta in un’intervista ad Affari Italiani: “Sono perfettamente consapevole del fatto che nelle case editrici il precariato esista, e che in generale ci siano dei problemi legati al lavoro nella filiera del libro” e ha proposto un incontro pubblico tra precari e case editrici, promosso dall’Assessorato alla cultura del Comune di Milano.

Ma nel frattempo cosa succede nelle aziende?

In questi giorni da Sperling & Kupfer e da Piemme stanno comunicando ai lavoratori che non solo non rinnoveranno i contratti a progetto e a tempo determinato dei precari ma addirittura chiederanno loro di aprire una partita Iva, chiaramente “finta”. E lo stesso processo si riscontra in tutti i marchi afferenti ai due principali gruppi editoriali del paese, il Gruppo Mondadori e Rcs Libri.

Si tratta di uno degli effetti “collaterali” della riforma Fornero, sostengono gli editori, che ha messo un limite all’utilizzo dei contratti a progetto: d’ora in avanti il progetto dovrà essere “specifico”, “collegato a un determinato risultato finale” e soprattutto non potrà “consistere in una mera riproduzione dell’oggetto sociale del committente”. Ma invece di trasformare le situazioni di precarietà in contratti a tempo indeterminato, la riforma sta peggiorando le cose, e le aziende si stanno attrezzando per svincolarsi dai contratti a progetto.

Colpa della vistosa coda di paglia che le case editrici si trovano a dover nascondere in tutta fretta. Infatti, i contratti a tempo determinato e a progetto usati fino ad oggi sono sempre stati illegittimi: la quasi totalità delle persone impiegate con questi contratti lavorano in realtà come in un normale rapporto di lavoro subordinato e dovrebbero avere quindi un regolare contratto a tempo indeterminato. Le case editrici vogliono, quindi, tutelarsi dalla valanga di cause che potrebbe arrivare dai lavoratori che da anni si trovano in situazioni di illegittimità. Il passaggio alla partita Iva può rendere più difficile per il lavoratore dimostrare che la sua situazione è illegittima. Stiamo parlando di lavoratori che lavorano con contratti a progetto da due, cinque o dieci anni, e che lavorano in azienda con orari fissi e con tutte le altre caratteristiche che richiederebbero un contratto a tempo indeterminato.

Ma c’è anche un altro effetto “collaterale”: se invece di rinnovare contratti pur precari si useranno le finte partite Iva, questo peggiorerà la situazione dei lavoratori, abbassando gli stipendi e, invece, facendo risparmiare le aziende. E c’è chi parla già di piani di ristrutturazione che toccheranno anche i “garantiti” assunti a tempo indeterminato.

Nel frattempo i ReRePre stanno preparando un’inchiesta sulla precarietà nelle case editrici milanesi, un problema gigantesco ma sempre tenuto nascosto. Ditelo a Boeri: all’incontro con gli editori ci sarà da divertirsi.

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