Dentro la stanza le urla si alternano alle cartelle cliniche. Anche i “vaffa” sono ritmati. Rumore. Qualcosa è stato lanciato. “Che voi da me? Hai fatto la lastra? E sai quanto me ne frega… ”. C’è un però: il paziente che esce poco dopo sorride, è contento. Tocca a un altro. Passano quindici minuti, medesima espressione del precedente. Eppure chi entra nel reparto di chirurgia toracica ha spesso un tumore con il quale combattere. Quindi poco da stare sereni. Il medico che riceve e visita si chiama Massimo Martelli è primario al Forlanini di Roma, una struttura complessa, enorme, dove chi passa dall’entrata posteriore deve affrontare cunicoli con mura sbrecciate, cassonetti rivolti a terra, medicazioni abbandonate, mozziconi di sigaretta ingrigiti dal tempo. Ogni bruttura “accompagna” lo spirito verso uno stato d’animo poco propenso alla fiducia. Sbagliato. Al terzo piano ecco l’eccellenza. Lo dicono i fatti, lo raccontano i numeri: solo nel 2010 nelle sette strutture ospedaliere che incidono su Roma, sono stati effettuati circa 1500 interventi al torace. Di questi, oltre 840 dalla sola equipe del professor Martelli. “Come è possibile tutto questo? Non è complicato: lui arriva ogni giorno alle sei del mattino e inizia le visite, poi opera tre volte la settimana. Lista di attesa? (sorride) Chi chiama oggi aspetta al massimo tre giorni per farsi ricevere e un mese per l’eventuale intervento. Salvo emergenze”, racconta un infermiera del reparto. Bene specificarlo: la struttura è pubblica. Quindi le stanze scarne, i pavimenti puliti ma lisi, la sala d’attesa essenziale. Una piantina spuria l’unico ornamento. I fronzoli non sono necessari. “Che hai detto? Che voi fa?” attività fisica, posso fare attività fisica? “Ce vai a letto co tu moje?” sì, lì tutto bene “allora che voi da me? Ci vediamo a giugno”. Pacca sulla spalla, senza troppa forza, il signore è stato “aperto” appena un mese fa. Chi ama i paragoni su pellicola, lasci perdere il cinismo alla dott. House o l’atteggiamento seducente di George Clooney in ER. Ancora meno quello di Kildere. Se un paragone è necessario, allora quello più calzante è con i camici verdi di Mash, il cult movie anni Settanta di Altman, dove guerra, amore, risate e cure erano mixati alla perfezione.

Sì, ma quanti pazienti visita? “Dall’inizio dell’anno sono arrivato a 3790, ecco qui la lista (e apre il suo computer). Questa mattina (sono le 11.05) siamo a tredici, più un’operazione”. Infatti indossa ancora il camice, la cuffia e la mascherina è allacciata, ma calata sul collo. “Tra poco ricomincio… CHI È???” Bussano alla porta. “Ancora te! Ammazza che palle! Va bene, ti faccio togliere i punti, basta che non me rompi più”. Accontentato. “Vede, la questione è una: spiazzare. Chi entra qui dentro ha un problema grande, è pronto a piangere, a disperarsi. Noi dobbiamo metterlo a proprio agio, scherzare, sdrammatizzare, quindi la prima domanda è sempre: ‘da dove vieni? Sezze… Ma lì ci fanno i carciofi! Li adoro…’ Poi si passa alle cose serie”. Torniamo ai dati. Il Forlanini è una delle strutture maggiormente in rosso della Capitale. Miliardi di debiti che con il passaggio dalla lira all’euro sono diventati milioni. Anche in questo caso il reparto del professor Martelli è l’eccezione. Verde, con un attivo di tre: “Prenda questi dati, li legga – spiega –. Sa cosa emerge? Che i maggiori costi sono dati dal personale, quasi per l’80 per cento, mentre da noi incide solo per il 34. Sa come?” Ce lo spieghi. “Non mandiamo via le persone: chi entra qui ha una media di 8,8 giorni di degenza, mentre negli stessi reparti degli altri ospedali saliamo a venti. Se lei pensa che un paziente costa al giorno circa 1000 euro ecco che viene fuori il risultato positivo”. Li dimettete ancora malconci? “Ma no. Abbiamo annullato il tempo di pre-ospedalizzazione, un solo giorno, non perdiamo tempo con gli esami. Li organizziamo prima”. Squilla il cellulare. “I tortellini? Boni… ma no, non fa niente. Ma… non ti preoccupare, lascia perdere”. Paziente? “Sì, ha un negozio di meraviglie gastronomiche. Oramai è un amico, come capita spesso”. Come succede da 23 anni, da tanti è primario . Di vezzi nessuno, smanie ancora meno. Vive in affitto. Di soldi ne avrebbe potuti incassare all’infinito, ma visita gratis. Ancora per poco: si avvicina la pensione. Quanto manca? Tira fuori il cellulare. Lo illumina, quindi lo mostra. Sopra c’è un cronometro, un countdown perenne: 289 giorni, tot minuti altri secondi ed è addio al reparto. “Per me non sono all’alba, ma al tramonto”. E qui smette di sorridere.

da Il Fatto Quotidiano del 18 novembre 2012

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