“L’unica lezione che ho imparato nella vita è non aspettarsi mai niente”, spiega così il suo stato d’animo la bolognese Nicoletta Mantovani, classe ’69, vedova Pavarotti, all’esordio come produttrice cinematografica con E la chiamano estate.

Gli ululati di scherno provenienti dell’Auditorium Renzo Piano del festival di Roma non l’hanno di certo scoraggiata. Nell’anno uno dell’era Marco Muller, l’ex assessore alla cultura del Comune di Bologna non ha sbagliato un colpo: Marc’Aurelio d’Oro per Paolo Franchi come miglior regista e per Isabella Ferrari come attrice protagonista. Come si dice dalle parti delle due torri: “c’aveva preso”, con un budget medio basso di 1 milione e cento mila euro suddiviso tra la sua casa di produzione Pavarotti &friends, l’aiuto della francese Carlotta Films, dell’italiana Pixstar e il contributo di 400 mila euro dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali.

“Ammetto che non mi aspettavo tutte queste polemiche”, racconta al fattoquotidiano.it, “sono reazioni francamente esagerate, dovute alla cattiva educazione abbastanza presente in buona parte di giornalisti e addetti ai lavori. Il film può piacere o non piacere, ma come hanno scritto i giurati nella motivazione ufficiale ‘lo puoi odiare o amare, ma alla fine ti rimane sotto la pelle’ ”.

Un po’ come Carlo Ponti che decise di produrre Il disprezzo di Godard o quell’Alfredo Bini che puntò su Pasolini cineasta: “Il complesso progetto di Franchi mi aveva affascinato fin dall’inizio, lo script mi piaceva molto e soprattutto sapevo che sarebbe stato raccontato il lato oscuro della vita, il turbamento, con un linguaggio diverso. A molti è bastato che la narrazione fosse a flashback e non temporalmente consequenziale per suscitare malumore”.

“Poi sia chiaro”, prosegue la Mantovani, più volte presente sul set in fase di lavorazione del film, “nonostante sia ancora alla mia prima produzione e abbia ancora molto da imparare, a Paolo ho imposto alcuni paletti: su alcuni ha ceduto lui, su altri ho ceduto io. In fondo è un film d’autore. Ora attendiamo il responso del pubblico. Se riusciremo a fare molti spettatori sarà la ciliegina sulla torta”. E la chiamano estate si appresta ad uscire in sala il 22 novembre con almeno il doppio delle copie previste: fino a poche ore prima del trionfo romano ne erano pronte 25, ma già da domani si punterà a 40 per coprire, con una distribuzione esile ma onorevolissima di Officine Ubu, tutti i capoluoghi d’Italia: “Non è poi detto che continui a produrre film, dipenderà dai progetti che incontrerò sulla mia strada. Pensate che dodici anni fa produssi un musical teatrale come Rent. Fu un successo ma non proseguii su quella strada perché non mi affascinò più nessun copione”.

E nel passato della vedova Pavarotti c’è anche l’innamoramento per un “progetto” politico, quello del sindaco Pd, Flavio Delbono, iniziato a Bologna nel giugno 2009 e conclusosi con lo scandalo del Cinziagate nel febbraio 2010: “Avventura bellissima, finita male e in molti mi hanno mancato di rispetto. Eppure mi piaceva molto fare l’assessore alla cultura. Sia chiaro: un lavoro complicatissimo che non mi permetteva nemmeno più di vedere una volta al giorno mia figlia”.

Lavoro conclusosi quando tutto doveva ancora iniziare: “In pochi mesi, tra eccessiva burocrazia e la volontà politica della maggioranza che non era più la stessa, l’esperienza finì. Comunque per ogni decisione c’erano problemi. Penso alle decine di palazzi storici inutilizzati. Perché non affittarli? Trovai sponsor per il balletto di Vasco Rossi, che poi è stato messo in scena alla Scala, ma c’erano regole per tutto, tanto che il consiglio comunale mi fermò due volte per indire un bando. A Bologna poi ci sono mostri sacri che non si possono toccare ma per i quali si continua a spendere denaro”.

Un consiglio al suo successore Alberto Ronchi, o all’omologo regionale Massimo Mezzetti? “Con Ronchi non ci siamo mai trovati d’accordo, ma anche se io ho avuto idee sbagliate, temo che oggi manchino in generale le idee. Si pensa più al voto, alle alleanze elettorali che ai bisogni della comunità”.

Capitolo finale, che poi è il primo in ordine pratico d’importanza: il grande vuoto di una Film Commission Emilia Romagna: “Semplicemente non esiste e noi per girare non ci abbiamo nemmeno fatto affidamento e siamo andati in Puglia (l’Apulia Film Commissione ha contribuito al film di Franchi con 40 mila euro, n.d.r.)”.

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