Il teatro Valle è occupato, sì, ma per una sera da una donna, una sola. Piccolina, occhi grandi ed espressivi, i capelli raccolti in due “cornetti” ai lati della testa, Silvia Gallerano è nuda, letteralmente, su un trespolo da foca ammaestrata. È l’unica protagonista del monologo “La Merda”, acclamata opera di Cristian Ceresoli che ha già fatto incetta di premi, a cominciare dal primo posto al prestigioso Fringe festival di Edimburgo. La scrittura del testo è eccellente, condita di efficaci artifici retorici che hanno un retrogusto shakespeariano, mentre il fil rouge ideale (e ideologico quanto basta) è evidentemente pasoliniano.

La platea è vuota. Il pubblico è sul palco e dà le spalle alle quinte, e la protagonista è lì, sul trespolo, nuda. All’inizio, giocoforza, gli sguardi sono tutti per quel corpo nudo, per quel pube esposto con una naturalezza alla quale ci si abitua subito. Anche perché l’attenzione è presto rapita da questa maschera viscerale e sofferente di una donna che racconta, su un doppio binario miscelato sapientemente, le insicurezze dell’individuo e quelle, altrettanto alienanti, di un paese intero.

In quell’ora di monologo appassionato c’è davvero molto del codice genetico dell’Italia di oggi. Compromessi, mezzucci, un maschilismo becero e volgare che domina una società insicura e bloccata. Ci sono le miserie dello show business, di quella tv che usa la donna come una bambola da gonfiare e sgonfiare a seconda delle mode e delle esigenze del “pubblico sovrano”, di quei dirigenti che provinano personalmente e con particolare perizia le malcapitate che sperano di fare carriera in televisione. Silvia ci descrive in maniera chiarissima il personaggio che interpreta: “E’ una ragazza che è pronta a tutto pur di farcela nel mondo dello spettacolo. Un mondo in cui, in questo momento storico, sembra che tutti vogliano farcela”.

Ma c’è soprattutto lo smarrimento di ognuno di noi, in quelle urla che trasfigurano il dolce viso di Silvia Gallerano e lo trasformano nell’urlo di Munch. Il pubblico è travolto dall‘inquietudine e dallo smarrimento. Le vene del collo si gonfiano, l’attrice vomita tutto l’insopportabile disprezzo nei confronti di un paese che non riconosce, nonostante il padre le avesse sempre parlato di quella nazione unita da omini “bassi e liberi” in camicia rossa e poi liberata da “quelli che resistevano”. La resistenza della protagonista è solo apparentemente fraintesa. All’inizio è assuefazione, abitudine. Poi si trasforma in rabbia nevrotica e ribellione interiore al limite di una alienante follia.

C’è molta Italia, nel testo, ma nessuno pensi a un monologo provinciale: “Quando siamo partiti per il Fringe festival – ci racconta la protagonista – non sapevamo come sarebbe andata e temevamo che molti avrebbero letto il testo come troppo italiano. Invece ci ha colpito il fatto che nessuno, anche nelle critiche sui giornali, ha identificato “La merda” come una storia solo italiana. Evidentemente sottolinea ed esaspera valori generali che coinvolgono tutto il mondo occidentale, a cominciare dal femminile e dall’asservimento al potere della televisione”. Nessun dubbio, poi, sulla scelta di stare sul palco completamente nuda: “E’ una suggestione che ha avuto Cristian e che io ho accettato, all’inizio senza nemmeno sapere bene per quale motivo. C’era qualcosa che mi diceva che era giusto. Poi ho trovato le mie motivazioni e mi sono data le mie risposte. Una scelta inevitabile per raccontare la vulnerabilità totale di un personaggio che si esibisce in questa maniera così mostruosa”.

E il finale non è per niente consolatorio. Lo sfogo della protagonista è segno di frustrazione e di resa ai metodi barbari della società italiana. La merda del titolo va trangugiata di nuovo, in un ciclo continuo che somiglia a un malfunzionante e puzzolente sistema di riciclaggio di rifiuti. “Finisce bene per lei – conclude la Gallerano – Non si ribella, non si oppone al sistema ma addirittura ne diventa fautrice estrema. Qualche dubbio sul lieto fine c’è stato, ma serviva qualcosa che descrivesse fino in fondo la parabola del personaggio”.

L’inno di Mameli finale, poi, cantato storpiandolo quasi come ci fosse Jimi Hendrix sul palco, è l’ultima suggestione di uno spettacolo che non delude le attese e riesce ad affrontare i temi del femminile e del suo difficile rapporto con la società contemporanea senza stereotipi stantii né parole d’ordine militanti. C’è solo un personaggio, nudo in ogni senso, che guida lo spettatore nel girone infernale della società contemporanea.

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