I ripetuti, forti e argomentati “vergogna!” che giovedì hanno clamorosamente cambiato l’agenda dei cosiddetti Stati generali della cultura sono l’unico risultato concreto (ma imprevisto e imbarazzante) della retorica sulla ‘costituente della cultura’ che il Sole 24 Ore alimenta ossessivamente da nove mesi.

Ma la montagna ha partorito un topolino interessante.

Il parterre schierato sul palco del teatro romano ‘Eliseo’ rappresentava in modo impeccabile l’ossificazione mortuaria della cultura italiana. E come si può chiedere di indicare nuove prospettive a chi ha imbottigliato la cultura italiana in una strada senza uscita?

Fa piacere sentire Giuliano Amato che riscopre l’articolo 9 della Costituzione: ma come non ricordare che l’ormai permanente blocco indiscriminato delle assunzioni dei giovani ricercatori italiani o dei soprintendenti fu inventato proprio da lui? E il danno è stato molto più grave dei pochi benefici ottenuti risparmiando su quei comparti strategici. Che il ministero per i Beni culturali sia “un morente ibernato” è verissimo: ma come non stupirsi che a dirlo sia uno dei congelatori, quell’Andrea Carandini che si precipitò a presiederne il Consiglio superiore quando Salvatore Settis sbatté la porta a causa del maxi-taglio da un miliardo e 300 milioni di euro disposto da Tremonti e subìto da Sandro Bondi?

E non parliamo dei ministri in carica: Lorenzo Ornaghi sale sul palco per dire “meno Stato e più privati”. Niente male per un ministro della Repubblica che dovrebbe invece difendere la dignità e i finanziamenti del sistema di tutela (un tempo) migliore del mondo. E quando un ragazzo gli urla: “Lei parla come un economista, non come un ministro della cultura”, il malcapitato ex rettore della Cattolica mormora che “non si può dire che questo governo non abbia fatto nulla per i beni culturali”. E invece è proprio così, tanto che Ornaghi non riesce a fare un solo esempio concreto.

Che il vento sia bruscamente cambiato se n’è reso conto il direttore del Sole, che nell’editoriale di ieri ha abbandonato la retorica vetero-craxiana sulla cultura come giacimento economico da cui estrarre reddito, e ha parlato della priorità della tutela del patrimonio, finalmente indicandolo come un valore in sé, e non come l’ennesimo strumento del mercato.

In tutto questo, l’affondo del capo dello Stato è apparso provvidenzialmente fuori degli schemi: in tempi di crisi si devono dire molti no, “ma alla cultura bisogna dire molti sì”.

Certo, uno si chiede perché Napolitano abbia controfirmato la nomina a ministro dei Beni culturali dell’unico ministro non tecnico del governo Monti: nomina che è stata un vero segnale di disprezzo per la cultura.

Ma non è mai troppo tardi, e la frustata presidenziale al governo e all’establishment culturale ha fatto capire che è finito il tempo in cui la pomposa definizione di ‘Stati generali’ può designare un teatrino in cui i responsabili dello sfascio si parlano addosso commentando lo sfascio medesimo. Se non altro di questo siamo gratissimi al Sole 24 Ore.

Il Fatto Quotidiano, 17 novembre 2012

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