Il Dalai Lama è in visita in Giappone, mentre è radunato il Congresso del Partito Comunista. Contemporaneamente – negli ultimi giorni – altri tibetani si sono auto immolati. Ad ora il numero delle persone che in segno di protesta contro la Cina ha deciso di darsi fuoco è di 72 dal 2009, di cui la maggioranza nell’ultimo anno: nove solo dall’8 novembre, giorno di inizio dello Shibada, il Congresso. Nelle zone tibetane in Cina, vengono segnalate proteste continue: una situazione ideale per la stampa locale, che senza mezzi termini, oggi attacca la guida spirituale tibetana e la sua visita dagli acerrimi rivali giapponesi. 

“Traditore e strumento nelle mani della destra giapponese”, così il quasi sempre soft China Daily ha definito in un suo commento il Dalai Lama, colpevole di aver invitato i giapponesi a recarsi in Tibet, per vederne da vicino le condizioni di sofferenza del suo popolo. In un articolo dal titolo emblematico, “La Cina denuncia l’ipocrisia del Dalai Lama”, gli anatemi però arrivano direttamente da fonte ufficiale. A parlare è stato infatti Hong Lei, portavoce del ministero degli Esteri: “La misera performance del Dalai Lama in Giappone, ancora una volta dimostra la sua natura reazionaria e traditrice della patria. Il Dalai Lama si batte per la divisione della Cina, fingendo di portare avanti motivazioni religiose”.

Ci risiamo dunque: secondo la Cina il Dalai Lama fa politica e in questo caso, oltre a perorare le sue cause “separatiste” la guida spirituale tibetana, in esilio dal 1951, minerebbe anche l’integrità territoriale cinese nel rapporto con il Giappone. La sua visita e le sue parole, infatti, porterebbero vantaggi internazionali al Giappone nell’ambito della disputa delle isole contese con la Cina, Diaoyu per Pechino, Senkaku per Tokyo. Recentemente le due nazioni hanno avuto scontri verbali durissimi: in Cina migliaia sono scesi per strada per contestare il comportamento giapponese, ritenendo che la sovranità sulle isole sia indubitabilmente al di qua della Muraglia. Le forze di destra in Giappone “cercano di ottenere il sostegno internazionale per la propria posizione attraverso la visita del Dalai Lama”, ha detto Huo Jiangang, un esperto di studi giapponesi presso l’Istituto cinese delle relazioni internazionali contemporanee, citato dal China Daily. “La Cina – ha ribadito il ministero degli esteri cinese – si oppone fermamente alle attività separatiste del Dalai Lama in qualsiasi forma vengano portate avanti”.  

Per quanto al Congresso la conferenza stampa dei delegati tibetani abbia finito per descrivere Lhasa come la città più felice della Cina, e per quanto il PCC si comporti come se il problema non esistesse, da sempre il Tibet costituisce la questione interna più spinosa per Pechino, anche in anni recenti. Poco prima delle Olimpiadi nel 2008 violenti scontri scoppiarono in Tibet e nelle regioni limitrofe e la repressione fu durissima. Da allora ogni marzo è data sensibile in Cina, specie nelle zone abitate dalla minoranza tibetana, con controlli a tappeto e presenza della polizia cinese in aumento. In occasione del congresso molte sono le zone nelle quali si sono segnalate proteste e controlli ventiquattro su ventiquattro da parte di pattuglie cinesi. La nota blogger tibetana Tsering Woeser ha comunicato di manifestazioni con migliaia di persone e di nuove ronde della polizia cinese in varie zone al confine con il Tibet, via social network. 

Proprio il presidente Hu Jintao – che nel 2008 definì il Tibet come problema “interno” della Cina tra Pechino e la “cricca del Dalai Lama” – fu il capo del partito che nel 1989 a Lhasa, in Tibet, decretò la “legge marziale” a seguito delle proteste nel 1989. Da allora ad oggi Hu Jintao non ha cambiato atteggiamento riguardo il Tibet e la sua problematica con Pechino: non sono pochi i tibetani che sperano che con il cambio della guardia qualcosa possa mutare. Anche se, in fondo in fondo, ogni cinese sul Tibet ha pochi dubbi: è sempre stato e dovrà restare, per sempre e a qualunque costo, cinese.

di Simone Pieranni

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