La violenza sulle donne è un crimine che non conosce frontiere, come testimonia Empower, un progetto finanziato dal programma europeo Daphne III. Il progetto – coordinato dal Dipartimento di psicologia applicata dell’Università degli studi di Padova – coinvolge cinque paesi (Italia, Austria, Bulgaria, Portogallo e Romania), uniti nella lotta contro la violenza di genere. 

Scopo di Empower è contrastare la violenza intra-familiare attraverso lo psicodramma, uno strumento che ha permesso alle donne coinvolte nel progetto di acquisire consapevolezza sui ruoli interiorizzati all’interno delle rispettive famiglie, dove vige una mentalità incentrata sulla subordinazione all’autorità maschile. Ne abbiamo parlato con Ines Testoni, professoressa di psicologia sociale all’Università di Padova e coordinatrice del progetto. Progetto che avrà come punto di approdo il congresso “Ending gender violence – From research to intervention”, in programma a Padova dal 20 al 23 febbraio 2013.

Lo psicodramma classico – ideato da Jacob Levi Moreno – prevede la messa in scena delle sofferenze, dei traumi, dei disagi e dei disturbi del paziente-protagonista. Attraverso il lavoro di gruppo e l’inversione dei ruoli all’interno del gruppo stesso, il paziente-protagonista riesce, passo dopo passo, a far emergere le sofferenze più profonde, spesso dimenticate a livello cosciente e indescrivibili a parole. Si tratta di un percorso che mette al centro la creatività e la spontaneità delle persone coinvolte.

Grazie a questa tecnica, applicabile in numerosi ambiti, donne vittime di violenza (da parte dei partner e non solo) sono riuscite a portare sul palcoscenico dello psicodramma episodi di violenza subita. Nelle sedute di psicodramma – coordinate da un ‘conduttore’gli ‘attori’ coinvolti interpretano ruoli diversi, oggetti inanimati compresi. In questo modo diventa possibile ricreare – ad esempio – una scena di violenza domestica, tra le pareti di una casa, in cui la vittima diventa aggressore, in un gioco di ruoli che porta alla luce episodi della vita reale spesso taciuti.

Com’è nato il progetto?
Prima di Empower avevo realizzato alcune ricerche nell’Est Europa per comprendere come le mafie riuscissero facilmente a trafficare donne per prostituirle. Le ricerche realizzate con prostitute straniere mi avevano fatto capire che si trattava di persone che prima della deportazione sulle strade italiane coltivavano progetti molto comuni: avere un uomo da amare, sposarsi, mettere al mondo figli cui garantire un futuro. Ciò che più mi colpì fu il fatto che – dopo essere state vendute da uomini di cui si erano fidate – la centralità dell’uomo e la fiducia nei suoi confronti rimanevano inalterate tanto da desiderare ancora le stesse cose. L’ulteriore scoperta che mi indignò fu che l’educazione ricevuta rispetto al primato dell’uomo proveniva dalla madre e dal suo mandato, sostanzialmente mirato alla riproduzione e al sacrificio per la prole. Toccare con mano quanto più volte ribadito dalle Conferenze internazionali sulla donna è stato un passaggio critico nel mio percorso di autocoscienza. Il progetto è dunque nato per permettere a quelle donne che sono vittime di tale mentalità, tanto da essere bersaglio di violenza, di prendere coscienza dei ruoli interiorizzati e della difficoltà di cambiare lo stato di prigionia interiore assunto con l’educazione.

Quali difficoltà avete incontrato durante il percorso?
La prima difficoltà che abbiamo incontrato è di natura culturale. Ammettere infatti che le madri trattengono le figlie nella mentalità della subordinazione all’uomo è stato un compito difficile perché questo è il momento storico in cui i gender studies cercano di eliminare il temibile effetto del “victim blaming” (colpevolizzazione della vittima: la donna è causa del proprio male). Il problema però non può essere ulteriormente nascosto e le madri devono finalmente trovare un modo per superare l’incapacità di educare i figli alla parità. Il linguaggi della psicoanalisi e del costruzionismo femministi hanno offerto grandi riflessioni su questi problemi, ma non hanno risolto la questione. E’ per questo che ho pensato che sia necessario trovare un’altra strategia, come per esempio potrebbe essere quella offerta dallo psicodramma, il quale permette alla donna di confrontarsi nella drammatizzazione della semi-realtà con l’incarnazione dei propri ruoli interiorizzati. Empower è nato per proporre questo percorso a donne che sono vittime di violenza intrafamiliare e che non sono capaci di liberarsi interiormente. Di fatto, lo psicodramma ha dimostrato di essere lo strumento che speravamo e non abbiamo quindi incontrato grandi difficoltà. Le uniche asperità sono state quelle interculturali, dato che i Paesi coinvolti in Empower sono 5 e la lingua veicolare è stata l’inglese. Per fortuna l’unità di intenti, la consapevolezza del problema e la competenza psicodrammatica hanno permesso di superare tutto.

Quali risultati avete ottenuto con le donne coinvolte nel progetto e che cosa prevedete per il futuro?
Stiamo elaborando i dati rilevati con ricerca semisperimentale, ma i primi dati qualitativi mettono già in evidenza che anche con sole poche sedute è possibile offrire alle donne l’opportunità di capire in che cosa consista il ruolo vittimario e come esso corrisponda a modelli educativi primari. Per il futuro prevediamo il follow-up, sperando nel Daphne. Alcune psicodrammatiste vogliono comunque sviluppare la tecnica all’interno degli studi di genere e di intervento sulle vittime, perché siamo convinte che essa possa essere molto utile anche nei centri antiviolenza.

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