Parlare di violenza come malattia è uno dei modi migliori per deresponsabilizzare le persone che ne sono autrici e non permettere loro di essere parte attiva dell’interruzione del comportamento violento, proprio come lo sono del suo nascere. La violenza non è una malattia e da essa non si può guarire, ma se ne può uscire partendo dalla presa di consapevolezza che non va trattata come un qualcosa di patologico.

Se si ha una sintomatologia ansiosa o depressiva, problemi nel rapportarsi con il cibo in modo corretto o altri disturbi di natura psicologica allora c’è bisogno di una cura appropriata, a volte fatta di parole, a volte di farmaci, a volte di entrambi. Non si sceglie di essere depressi, di essere fortemente ansiosi, di avere un rapporto conflittuale con il cibo; un disagio di cui non abbiamo alcun controllo o conoscenza non fa altro che manifestarsi in determinati sintomi. La scelta riguarderà solo, se e come, chiedere un aiuto professionale  per ciò che non scegliamo di essere o avere.

Si sceglie di colpire una persona, di “cazzottarla”, di tirarle un calcio, di soffocarla, di gettarle oggetti addosso, di spintonarla, di schiaffeggiarla, di urlarle contro, di offenderla, di mandarle uno sguardo minaccioso. Se c’è una scelta esistono delle alternative.

Per mettere fine ad un maltrattamento fisico e/o psicologico bisogna essere in grado di operare questo primo essenziale passo e rendersi conto che il comportamento violento nasce, in definitiva, dall’operare una scelta tra varie possibilità e quindi è evitabile. Di questo deve esserne consapevole anche  la società: la persona autrice di una violenza è responsabile del suo comportamento, non le vanno offerte delle scusanti che ne diminuiscano il potere esercitato. Certo ognuno ha la sua storia alle spalle e ci sono delle motivazioni che spingono qualcuno ad utilizzare le mani o le minacce al posto della parola, questo però ci deve aiutare a comprendere il maltrattamento, non a giustificarlo.

Se si pensa di dovere essere “curati” perché si è “malati” allora si delegherà la responsabilità dell’agito aggressivo ad una malattia e si penserà di essere impotenti,  giustificandosi, ma anche condannandosi a non poter cambiare e a vivere in relazioni disfunzionali perché, dove c’è violenza, la relazione ha smesso di essere sana e paritaria.

Il conflitto nelle relazioni umane è inevitabile, l’aggressività fa parte della nostra natura e la rabbia è un sentimento che ha pari dignità degli altri, non esistono sentimenti buoni e sentimenti cattivi, esistono e bisogna saperli gestire.

La rabbia è umana, noi siamo umani e possiamo arrabbiarci e questa  deve essere espressa e non repressa, non però ledendo la fisicità o l’equilibrio psicologico di chi ci sta accanto. Ho il diritto di arrabbiarmi, ho il diritto di avere una opinione diversa, ho il diritto di sentirmi offeso, ho il diritto di sentirmi non compreso, ma ho il dovere di gestire in modo corretto e non lesivo quello che provo e quello che penso.

Esprimere e gestire la collera significa nominarla con decisione, significa prendersi del tempo per sbollire e riflettere su cosa ci ha fatto o ci farebbe oltrepassare il limite, significa farsi una bella corsa per scaricare la tensione, significa trovare parole nuove per noi e per chi ci ascolta che creino un modo di comunicare diverso da ciò che non ha funzionato. Certo facile a dirsi, ma l’alternativa, ossia comportarsi in modo violento, è ciò che realmente vogliamo? Siamo davvero noi quel pugno? Siamo davvero noi quello schiaffo? Siamo davvero noi quell’insulto urlato in faccia all’altro?

Comportandosi in modo violento si vuole ottenere il rispetto e/o il controllo dell’altro, in realtà si ottiene solo la sua paura.

di Mario De Maglie

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