Da qualche tempo Antonio Negri e Michael Hardt lavorano in tandem e producono libri (direttamente in inglese) che si potrebbero definire “manuali” di sociologia politica. Hanno cominciato con Impero (2000), seguito da Moltitudine (2004) e poi da Comune (2009), tutti pubblicati da Rizzoli. Adesso è uscito invece da Feltrinelli (con un brusco cambio di editore) Questo non è un manifesto (2012) che, se non è proprio un manifesto, ha almeno i toni duri di un pamphlet.

Antonio Carioti su “La Lettura”, supplemento del “Corriere” del 4 novembre, ne sottolinea un passo infelice che salta subito agli occhi e che sembra sfuggito dalla penna di Negri nel richiamare il suo periodo di esule parigino. Tra le modalità di liberazione dalla crisi suggerisce infatti la fuga: “Quello che possiamo fare è fuggire… – scrive – Ma fuggendo è meglio non dimenticare George Jackson e portare con noi un’arma. Potrebbe tornare utile lungo la strada” (p. 43). Dove il Jackson in questione non è Michael, il musicista, bensì lo storico leader delle “Black Panthers”.

Dire che è un pessimo consiglio è il minimo, specie da parte di chi parla di comune e di moltitudini nell’antica accezione di Spinoza. Fuggire, con o senza armi, è sempre una rinuncia. Si riduce a un atto individuale, a uno sterile atto di ribellione, e come tale destinato a restare nell’ambito della cronaca nera.

E poi non è neanche attuale. L’eroe solitario in fuga dalla persecuzione è un’idea romantica piuttosto che una soluzione politica. L’ultima volta che l’abbiamo incontrato vestiva i panni del dottor Richard Kimble in un fortunato serial televisivo. Avventure, inseguimenti e pistolettate in una fiction, Il fuggitivo, destinata persino alle famiglie.

Non vorremmo che questa caduta di stile (chiamiamola così, per usare un eufemismo) inficiasse il valore della ricerca di Hardt e Negri, facendone dimenticare le parti più significative, dove si critica il neoliberismo di Milton Friedman e degli economisti della scuola di Chicago, si denuncia la crisi della democrazia rappresentativa e si precisa il significato dei movimenti collettivi, dalla primavera araba in poi.

Ma soprattutto il loro maggior contributo alla comprensione del fenomeno delle moltitudini, geniale intuizione dall’immensa pregnanza sociologica, nella quale s’intravede il potenziale sviluppo della società di domani, che sta faticosamente uscendo dalla massificazione per guadagnare in autonomia e responsabilità. Sarebbe un vero peccato.

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