Sabato scorso sono andato all’Università di Pavia per seguire l’ultima uscita pubblica del Procuratore aggiunto Antonio Ingroia, che tra poche ore lascerà la Procuradi Palermo destinazione Guatemala, dove andrà a ricoprire l’incarico di Capo dell’Unità di Investigazione della Commissione Internazionale contro la Impunità, organismo delle Nazioni Unite. La vicenda la conosciamo tutti e ciascuno di noi si è certamente fatto la propria idea sulle ragioni che hanno spinto Ingroia a questa scelta, così come sull’atteggiamento tenuto dalla Presidenza della Repubblica nei confronti dell’inchiesta della Procura di Palermo sulla trattativa stato-mafia. Non è di questo che vorrei parlare. Mentre ascoltavo le parole di Ingroia e ripercorrevo tutta la storia, tra me e me riflettevo su due elementi che hanno caratterizzato questa vicenda e che sono, purtroppo, alquanto peculiari del nostro Paese.

Anzitutto il provincialismo spinto di buona parte dell’Italia, che parla di svernamento di Ingroia in America Latina, anno sabbatico etc.. Questo fa parte della nostra atavica fatica di guardare un po’ oltre il nostro naso, pensando sempre ad un globo italo-centrico dove chi fa scelte diverse viene considerato vagamente ‘esotico’. Tutti i riflettori puntati sulla ‘fuga’ di Ingroia da un ambiente ormai contaminato, e nessuno che abbia sottolineato che il Procuratore è stato chiamato ad un importantissimo incarico in seno alle Nazioni Unite, riconoscimento di cui noi tutti, come italiani, dovremmo essere fieramente orgogliosi. Non si tratta di una scelta di ripiego ed Ingroia non va a fare l’animatore in un villaggio turistico caraibico: va invece a lavorare su una delle piaghe sociali che da lustri affliggono l’America Latina, la criminalità, e lo va a fare in un paese – il Guatemala – che negli ultimi anni si è caratterizzato per tassi di violenza inauditi.

Il secondo elemento di riflessione è che assistiamo ad un ennesimo caso di fuga (seppur temporanea, visto che l’incarico è di un anno) di cervelli. E, come tutti i cervelli in fuga, Ingroia ha compiuto questa scelta con profonda amarezza e sincero rancore verso il nostro Paese, colpevole di non avergli permesso di esercitare la sua professione come avrebbe desiderato. Questa è una triste costante della nostra emigrazione professionale: la sensazione di doversene andare altrove per lavorare in determinate condizioni, che in Italia sovente non sono permesse.

Io credo che uno degli indicatori di un paese in salute sia proprio quando i cittadini, al momento di emigrare, possano ringraziare il sistema educativo, economico e sociale del proprio paese per avergli permesso di crescere a tal punto da vedersi aprire nuove opportunità di carriera. Quando invece un Paese produce in serie dei professionisti in fuga pieni di rancore e di amarezza, significa che è profondamente malato.

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