Occorre controllare. Guardare le facce. Se è un forestiero bisogna perquisirlo. Chiedere: Chi sei? Da dove vieni? Perchè stai qui? Cosa ti serve? Lo portano a stancare poi lo spaventano. Basta il gesto: la pistola messa sotto la pancia. Deve piangere. E’ pallido-cadaverico. Batte i denti. Ha freddo. E’ la paura quella brutta: ti paralizza. Barcolla e nella mente il tarlo ossessivo: “Mi uccidono, mi uccidono, mi uccidono”. Neppure se ne accorge: lo spruzzo di diarrea gli macchia i pantaloni. E’ cotto. E’ il trattamento per i ficcanaso senza educazione. Da fuori nessuno deve entrare. E’ apnea da illegalità. La testa è declinata. Lo sguardo è basso. Il passo rasenta i muri, il movimento è quello delle zoccole. Sei un ostaggio. Abiti ma non risiedi. Prigioniero nelle quattro mura della casa popolare. Non puoi uscire. Non puoi parlare. Non puoi protestare. E’ così, basta e avanza. Sei un fortunato.

Quando la casa serve all’affiliato, ti ritrovi direttamente in strada. Il lasciapassare – in tempo di pace – è concesso solo a mamme con bambini piccoli. Per gli altri la “libertà” è nel cambio turno: spacciatore-spacciatore, vedetta-vedetta. I palazzi sono covi. Le “Vele” di Scampìa, periferia Nord di Napoli, Italia, Europa sono casermoni ammassati con corridoi passanti da un edificio all’altro. Con un paio di bombe, andrebbe tutto giù. E’ una bruttura. E’ un non senso. E’ urbanistica piegata, modifica, adattata allo smercio della droga.

Nel libro mastro dei boss, ci trovi i numeri dei cellulari di fabbri, muratori ed elettricisti. Fortificare, alzare muri, installare telecamere: è fondamentale. La guardia dev’essere alta. Il bunker serve a poco. Ci vuole astuzia. Occorrono barriere passive, cunicoli paralleli, porte girevoli. E’ ingegneria da strada. Servono nascondini per mettere al sicuro dosi e denaro. La settimana scorsa a casa di un aspirante boss gli agenti hanno trovato un doppio fondo nella parete nel cui interno c’erano due cassettine in ferro che custodivano contanti per 92mila euro. I soldi sporchi s’impastano nei deserti dei vicoli, delle strade, delle piazze. Ammorbano il clima. E’ sterco di diavolo. Corrompe. Affama. E’ questione di prezzo. Qualcosa si è rotto. E’ colpa di un testardo, astuto e grintoso primo dirigente, del commissariato Scampìa e di un manipolo di poliziotti. Da tempo assediano le “Vele”, i lotti, i palazzi. E’ un martellamento. Non si spostano. Rispondono colpo su colpo. Non ci sono fortificazioni invalicabili: maniglioni, rinforzi metallici, recinzioni saltano sotto i colpi del flex. Pareti posticce edificate per agevolare lo spaccio si sbriciolano nelle fauci delle ruspe. Le vie di fuga sotterranee si polverizzano al ritmo dei martelli pneumatici.

I controlli si spostano nelle abitazioni, nei negozi, nei condomini con perquisizioni mirate. E’ un assedio h24 con posti di blocco e presidi fissi. La più grande piazza di vendita di droga d’Europa è ferma. Non era mani accaduto in 20 anni. Che fare? Il gruppo dei cosiddetti “Girati” in guerra contro la cosca degli “Scissionisti” non può non “lavorare”. La coesione interna ad un clan si regge sul potere: soldi, soldi, soldi. Le partite di stupefacenti arrivano – ci sono accordi commerciali di cartello – e la roba dev’essere venduta. Si, ma dove? Trovare nuovi spazi sostitutivi delle “Vele” è arduo. Cercare nuove piazze è pericoloso. Invadere zone di altri : è sconsigliato. Chi sconfina è un morto che cammina. La regola è impressa a fuoco. Chiunque è “iniziato”, lo sa. L’affiliato non appartiene più a se stesso ma al clan. La camorra conquista e difende i confini. Tutti contro tutti.

Questo sta accadendo a Napoli. La carneficina, l’ennesima, è una partita a scacchi. I pezzi da 90 sono in galera. “Logica” e “strategia” criminale non è per personaggi di basso cabotaggio – per lo più cocainomani – agiscono d’istinto. Sono gonfi d’insicurezza. Sono spavaldi. Imitano Al Pacino, De Niro e Ben Gazzara. Sono una generazione inutile, bruciata, avvitata e pericolosa. Quando finiscono dietro le sbarre sono guardati a vista: non reggono. Piangono spaventati. Invoca la mamma, la fidanzata, la Madonna, l’immancabile Padre Pio. Alcuni tentano gesti-autolesionistici. In realtà sono burattini. A manovrare sono altri: i boss dormienti, i sopravvissuti. Sono travestiti, nascosti, travisati in nuove vite. Immaginate un padrino carismatico, che ha sempre condotto guerre di conquista a bassa intensità. Scaramucce vinte per desistenza e accordi sotterranei.

Un Napoleone del crimine. Trova sulla sua strada uno sbirro, un super poliziotto che non va per il sottile. Cammina sul confine. Si muove su di un burrone pericoloso. Si sporca le mani. Capisce le mosse dei criminali, le interpreta. Intuito e bravura. Talento e perseveranza gli consentono – in un lustro – con i suoi uomini scelti di assicurare alla giustizia tutti i più importanti latitanti di camorra in circolazione. E’ una rivoluzione. Disarticola i clan, li porta allo sbando, li fa esplodere. Gli omicidi da 120 passano a poco più di 40 all’anno. ‘O “sistema” non sono più famiglie amorali.

La camorra si polverizza. E’ un corto circuito. Il padrino-Napoleone comprende il rischio. Gli danno il mandato. Deve fare qualcosa: diventa amico del suo nemico. Lo avvicina. Lo seduce con una promessa. Ora è un confidente. Come pollicino sparge molliche. Costruisce alibi, circostanze, occasioni. Spiffera nomi. Aiuta le indagini. A volte è determinante con la soffiata giusta. E’ il segreto di pulcinella. La malavita sa di Napoleone. Lo battezzano l’ispettore. Scatta la trappola. E’ il momento. Il padrino-Napoleone decide: collabora con lo Stato. Le sue prime dichiarazioni si concentrano – guarda cosa-nel recuperare le molliche. Il super poliziotto, lo sbirro: capisce. Ora è indagato e allontanato. Destinato ad altro incarico. Se entra in città per lui scattano le manette. Il padrino Napoleone è tranquillo. Non è un infame. Non è una gola profonda. Non è un traditore. Fuori nel suo nome continuano a fare affari: più forti ed egemoni di prima. Se poi minacciano il suo feudo. Aggrediscono i confini. Tentano di occupare il “suo” territorio. Scatta l’ordine del clan: sparate a vista. Bisogna colpirne uno, immediatamente. Punirlo per educarne gli altri. Non c’è tempo: sparate.

Parte la spedizione: è la sera del 15 ottobre, un gruppo di killer da un altro quartiere con una descrizione sommaria si avventura. Sono appostati. In quel momento un giovane Pasquale Romano, 30 anni, molto somigliante alla vittima prescelta, (sarà trucidata qualche giorno dopo) ha appena salutato la fidanzata, sale in auto per raggiungere il campetto di calcio, lo aspettano gli amici. Mette in moto. Il buio. Una raffica lo investe. Muore, non solo lui, anche un’intera città.   

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