La convenzione bilaterale tra Italia e Brasile del 1980 (n. 844 del 29/11/1980) sul divieto di doppia imposizione ha funzionato decisamente bene se le imprese italiane contano in loco più di 730 stabilimenti produttivi e ben 130mila dipendenti diretti, secondo stime governative. E le varie missioni del ministero dello Sviluppo economico, come l’ultima di metà settembre guidata da Corrado Passera, catalizzano ancora l’attenzione di centinaia di imprese italiane.

D’altronde come dare loro torto, visto il meccanismo di funzionamento che c’è dietro quell’accordo. Negoziare una bassa o nulla tassazione in Brasile e vedersi riconosciuto dal ministero dell’Economia italiano un credito d’imposta sugli utili lordi predefinito, in misura del 25 per cento o del 15 in caso di dividendi. Il che vuol dire incassare la differenza netta per tutta la durata dell’attività. In soldoni basta dirottare investimenti Oltreoceano, dove l’economia galoppa, i mercati di beni e servizi sono fiorenti e la possibilità di crescere e fare utili molto più semplice per tutti, per guadagnare in loco e incassare dallo Stato in Italia su quegli utili prodotti, al posto di pagare tasse (lì o in Italia, senza duplicazioni) come normalmente succede.

Poteva andare bene per aiutare un Paese arretrato come il Brasile degli anni 80, ma adesso la situazione sì è ribaltata e i bisognosi siamo noi. Il ministro dello Sviluppo economico  durante l’ultima missione in Brasile ha caldeggiato investimenti carioca in Italia ma, ironia della sorte, la Convenzione dell’80 pur essendo bilaterale è asimmetrica e le norme favorevoli per le imprese italiane non lo sono per quelle brasiliane che eventualmente volessero venire da noi. Ma qual è l’esborso per lo Stato italiano ogni anno? Impossibile saperlo, in quanto il Dipartimento delle finanze si è rifiutato di fornire i dati aggregati nonostante le nostre continue richieste e malgrado questi numeri, anche ai sensi di un decreto ministeriale del 1996, non siano sottratti al dominio pubblico.

Il Dipartimento si è limitato a rispondere che questi dati possono essere forniti a un istituto di ricerca e non a un giornale. La questione non si è però arenata, grazie a un’interrogazione depositata dal senatore Elio Lannutti dell’Italia dei Valori in commissione finanze di Palazzo Madama nella quale si chiede al ministro competente (Vittorio Grilli dell’Economia) di far luce su queste somme e sul perché non sia possibile accedere a dati in teoria pubblici. L’interrogazione è stata firmata da altri senatori dell’Idv e da Rosario Costa del Pdl, che sostiene la maggioranza, e dovrebbe essere inserita nella discussione sulla nuova delega fiscale per indicazione del presidente Mario Baldassarri.

Spulciando i bilanci delle società quotate che hanno filiali o stabilimenti produttivi in Brasile non si ricavano molti dati. Telecom Italia sembra essere la più precisa, indicando in 147 milioni di euro i crediti fiscali verso lo Stato Italiano per le attività brasiliane. Fiat, contattata da Ilfattoquotidiano.it, ha risposto che quei crediti ammonterebbero al 15% dei 369 milioni di euro iscritti nell’ultimo bilancio.  Altri, come Pirelli, indicano in circa 40 milioni di euro il totale dei crediti, esplicitando che all’interno ci sono anche le attività brasiliane, senza specificare a quanto ammontino. Altri ancora, come nel caso Fiat, non menzionano nulla.

Articolo Precedente

Crisi ma non troppo, i grandi banchieri nel 2011 in Italia sono costati 134 milioni

next
Articolo Successivo

La crisi Fiat e il doppio aiuto che intanto Marchionne incassa grazie al Brasile

next