Ho letteralmente divorato il recentissimo volume di Salvatore Patriarca, La filosofia del gatto (Newton Compton Editori, Roma, ottobre 2012); volume senz’altro riuscito per il percorso tracciato: dall’esperienza vissuta all’interrogazione filosofica, come suggerisce lo stesso autore nella Premessa: “Filosofia, nel senso platonico, significa sorpresa, meraviglia. E il gatto, nella vita di tutti i giorni, è proprio meraviglia, sorpresa. Una filosofia del gatto è dunque uno stupore dello stupore, una sorpresa della sorpresa” (p. 7). Molto intense le pagine dedicate a Miciolino, Irene, al senso della perdita e, infine, alla scoperta del terzo gattino, registrato come “Lorelay Rory Patriarca”; di qui alle astrazioni: il gatto e il tempo, il gatto e lo spazio, l’etica del gatto, l’estetica del gatto.

Anche per me è avvenuto lo stesso con una differenza: la lacerazione della perdita delle mie due gattine, Carlotta e Camilla, con cui avevo convissuto ininterrottamente per 17 anni, 8 mesi e 20 giorni, non si è mai rimarginata e non si rimarginerà mai più. Tutti gli altri, quelli che non apprezzano la gattofilia, non riescono a capire, trovo solidarietà soltanto in alcuni che condividono con me la stessa passione, quella passione in base a cui mi sono definito su Facebook “un gattofilo estremista e un narcisista moderato”. Eppure anche la mia esperienza non è stata del tutto lineare; fino almeno ai primi di luglio 1994 – non avevo ancora compiuto 49 anni – potevo essere considerato, non mostrando una simpatia particolare né una ricusazione di principio nei riguardi dei gatti, un indifferente, un agnostico. Ricordo ancora quel luglio caldissimo, bruciante, quando, sotto la spinta di mia figlia, scelsi Camilla; mi era apparsa in tutta la sua felina tracotanza, diventandomi immediatamente simpatica, mia moglie scelse contemporaneamente Carlotta, molto più timida e dolce. Da quel momento ho cominciato a conoscerle e ad amarle; non posso essere accusato di parzialità nei confronti di Camilla perché ho voluto bene ad entrambe allo stesso modo: per me, pur nella loro profonda diversità, erano un tutt’uno.

È stata proprio questa passione a suscitare in me l’interesse per la civiltà egizia, che aveva elevato il gatto fino agli altari; Bastet era una dea-gatta onorata in una grande festa annuale e, ad Alessandria, uccidere un esemplare della specie comportava la pena di morte per l’assassino o il suo linciaggio a furor di popolo. Come narra Erodoto, quando un gatto di casa passava a miglior vita, tutta la famiglia si radeva le sopracciglia in segno di lutto e il piccolo cadavere veniva imbalsamato perché potesse entrare nel regno dei morti.

È stata questa stessa passione, coltivata negli anni, a suggerirmi i seguenti quesiti: se gli esseri umani hanno un’anima immortale che sopravvive alla morte del corpo, vale lo stesso anche per i gatti? In altri termini, esiste una vita felina dopo la morte e qual è l’essenza della ‘gattità’? Ciascun gatto possiede una gattità unica e irripetibile? Provo a rispondere con l’ausilio della mia esperienza. Sopravvivranno alla morte le mie due amatissime gattine? Avvertendo costantemente le loro presenze, i loro fruscii, i loro silenzi, posso rispondere in maniera affermativa; sono con me, sono dentro di me, per questo non potrò mai sostituirle; erano uniche quando le scelsi e tali rimarranno per sempre. Carlotta e Camilla erano veramente esemplari; non potrò rinunciare mai a entrambe né sostituirle perché sono una parte essenziale della mia vita, di quella veramente vissuta, senza cui neppure l’interrogazione filosofica potrebbe nascere.

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