Leggere oggi sul Corriere della Sera l’articolo del corrispondente da Parigi, Stefano Montefiore, mi ha fatto ripiombare alle tristi giornate bolognesi della morte di Lucio Dalla e all’altrettanto triste dibattito in cui quel lutto fu immerso.

Montefiore, nel suo pezzo dal titolo ‘raccontare che Rimbaud era gay non elimina l’Omofobia nelle Scuole’ sostiene, in soldoni, che parlare dell’omosessualità di Verlaine e Rimbaud lede al diritto che quel tratto delle loro esistenze rimanesse un fatto privato. Il commento si riferisce all’illuminata intervista rilasciata da Najat Vallaud-Belkacem, portavoce del governo francese e ministro dei Diritti delle donne, al periodico gay Têtu.

In quell’intervista il ministro sottolinea il bisogno – e perciò l’intenzione, si spera – di aggiornare i libri scolastici esplicitando l’orientamento sessuale dei personaggi storici, fino ad oggi taciuto nella stragrande maggioranza dei casi. Najat Vallaud-Belkacem ben argomenta questa decisione e lo stesso Montefiore riporta con precisione il nocciolo di quella argomentazione, non riuscendo però a farne tesoro.

Innanzitutto, il ministro dice che in molti casi (tutti, sostengo io), quell’orientamento sessuale (che non è una scelta, caro Montefiore!) è determinante per comprendere l’opera e il pensiero di quegli intellettuali. Ma soprattutto sottolinea un altro aspetto: “Molti dei nostri figli che scoprono di essere omosessuali – dice – non possono identificarsi con alcun personaggio storico e tendono quindi a considerarsi come anormali: è questa sofferenza che dobbiamo prendere in considerazione”.

A commento di questa riflessione – ai miei occhi assolutamente convincente – il cronista chiosa: “il rischio è che si passi dall’esecrabile obbligo di nascondersi all’obbligo di mostrarsi”. L’argomentazione è la stessa usata da molti commentatori sulla vita di Lucio Dalla, all’indomani dell’estinzione di quella stessa vita. E la morte in questo caso è il primo dato di cui non si sta tenendo conto e che invece è fondante, perché affida quella biografia alla storia e a chi, della storia, deve produrre un racconto. Che non può e non deve essere una mediazione tra le volontà dei singoli, bensì uno slancio laico che ha come unico obbiettivo la tensione verso la verità.

La storia è testimonianza non un’antologia di Spoon river in cui ciascuno sceglie come essere ricordato. E il silenzio che un individuo sceglie di costruire attorno al proprio orientamento sessuale fa parte della storia e deve essere destrutturato e raccontato, perché molto dice dei contesti sociali, politici e culturali in cui quegli intellettuali operavano.

Assecondare quei silenzi significa rendersi complici di una mistificazione e, nel contempo, venir meno rispetto al compito di testimonianza che alcuni osservatori – giornalisti in primis – ontologicamente hanno.

Un’ultima perplessità , di tutt’altra natura, mi ronza in testa leggendo il pezzo di Montefiore ma anche ricordando la vicenda di Lucio Dalla: quel ‘diritto alla riservatezza’ tanto professato è universale o viene riconosciuto in base allo status o – peggio ancora – al censo? Quella ‘discrezione’ è un diritto tanto per Lucio Dalla quanto per quelle vittime di omicidio delle quali – sulla base di fragili sospetti – non si esita a scrivere: ‘si indaga negli ambienti gay’? Non mi pare affatto, e non mi sembra credibile che quelle persone, prima di morire, avessero sottoscritto una liberatoria.

N.B.: c’è una ‘notizia nella notizia’: in Francia il portavoce del governo rilascia interviste ai periodici gay. Ma questa è un’altra storia.

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