amman protesteNel contesto delle “primavere” iniziate in Medio Oriente e in Giordania nell’inverno 2011, la situazione della Giordania è passata pressoché inosservata. Del Paese si è parlato prevalentemente in relazione ai profughi di guerra della Siria, giunti a decine di migliaia nel regno. 

Re Abdallah, di fronte alle prime manifestazioni di protesta, nel gennaio 2011, ha promesso cambiamenti politici, economici e sociali, lasciando anche intendere di essere pronto a un trasferimento di poteri dalla monarchia al parlamento, a elezioni anticipate e al conferimento di poteri basati sul mandato popolare ai partiti. Di riforme effettive, soprattutto a livello costituzionale, non se ne sono però viste e le proteste sono proseguite.

Quest’anno, si è assistito a una girandola di primi ministri nominati e licenziati dal re, ben quattro da febbraio. All’ultimo, Abdullah Nsur, re Abdallah ha scritto neanche due settimane fa, enfatizzando il fatto che il governo è “responsabile del rispetto della libertà d’espressione e del diritto di manifestare pacificamente”.

La realtà, da mesi, stride con le intenzioni proclamate dal re. Oppure queste vengono disattese.

Fatto sta che dal 15 luglio al 5 ottobre, 20 attivisti di gruppi per le riforme, ritenuti legati ai Fratelli musulmani, sono stati arrestati nella capitale Amman, a Tafileh a sud e a Karak ad ovest e in altre città del paese, mentre prendevano parte, o subito dopo avervi partecipato, a manifestazioni pacifiche, convocate per chiedere riforme, libertà politiche e la fine della corruzione.

Si tratta, secondo Amnesty International, di prigionieri di coscienza, che non hanno fatto né promosso l’uso della violenza.

Uno di loro è Sa’oud al-‘Ajameh, esponente del Movimento Giordania 36, organizzazione che prende il nome dall’articolo della Costituzione che riserva al re la nomina dei senatori, uno di quelli nel mirino dei riformisti.

Arrestato a luglio ad Amman per aver criticato il re e altre autorità durante una manifestazione di protesta contro la nuova legge elettorale che favorirebbe i candidati del governo, al-‘Ajameh è sotto processo per “atti che mettono a rischio il sistema politico del regno” e “incitamento a compiere azioni illegali”. Rischia l’ergastolo. Il 10 ottobre ha denunciato di essere stato picchiato da criminali comuni nel carcere di Um al-Loulou.

Ha riferito di essere stato picchiato, ma durante l’arresto avvenuto il 7 settembre, anche un altro attivista, Hesham al Sarahin.

I 20 attivisti sono attesi da un processo irregolare di fronte alla Corte per la sicurezza dello stato, un tribunale speciale di cui le organizzazioni per i diritti umani chiedono da tempo l’abolizione. Le accuse nei loro confronti sono numerose: oltre a quelle già citate, comprendono “lesa maestà”, “partecipazione a raduno illegale”, “diffusione di notizie atte a indebolire il sentimento nazionale o a provocare disordini settari e razziali” e “tentativo di cambiare la costituzione dello stato”, reato quest’ultimo per il quale è prevista la pena di morte.

In attesa del processo, la maggior parte degli arrestati si trova nella prigione di Jweideh, altri in quelle di al-Hashemy, Balqaa’ e la già ricordata Um al-Loulou. Gli avvocati lamentano di non avere pieno accesso ai fascicoli dell’istruttoria e di non avere il tempo necessario per poter conferire coi loro clienti.

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