Tanto clamorosa era stata la sua caduta che, non pochi, avevano pensato d’averlo perduto per sempre. Ma Barack Obama s’è a quanto pare rialzato. Ed è anzi apparso – martedì notte, nel corso del secondo dibattito presidenziale – tanto stabile sulle gambe da spingere non pochi osservatori a credere (vedi, ad esempio il post di Andrea Aparo) che anche il suo precedente, rovinoso capitombolo altro non fosse in realtà stato che una geniale messinscena. O, se si preferisce, l’ultima variante d’una antica tattica di combattimento –  fingersi morto, per poter sorprendere l’avversario a guardia abbassata – molto argutamente adattata alle circostanze dai consulenti di campagna del presidente in carica.

Fossero davvero andate così le cose – vale a dire: fosse stata davvero la catastrofe del dibattito d’apertura studiata a tavolino dal “team Obama”– molto più logico sarebbe spiegarla, mi pare, non come un machiavellico episodio di strategia elettorale, ma come un esempio di psicopatia sessuale, assimilabile ai casi di coloro che, per raggiungere l’orgasmo, hanno bisogno di soffocare se stessi fino ai limiti della morte per asfissia. No, io credo che la caduta di Obama nel primo dibattito, sia stata assolutamente reale e inattesa, “spontanea” e disastrosa al punto che, ancor oggi, dopo il “vittorioso” secondo dibattito, se ne possono rimirare le non del tutto cicatrizzate ferite.

Al primo dibattito – quello consumatosi a Denver, tra le montagne del Colorado – Barack era arrivato con il proverbiale “vento in poppa”. La sfida di Romney – da sempre marcata dalla strutturale debolezza del “meno peggio” – non solo non decollava, ma pareva sul punto di sprofondare sotto il peso della propria inconsistenza e quello d’una serie di passi falsi. Infotrade, l’istituto che segue la corsa dei due candidati come si trattasse di titoli di borsa, invitava a comprare senza esitazioni le azioni Obama, e a vendere le Romney prima che i suoi valori finissero sottozero. Le distanze tra i due contendenti si mantenevano all’interno di quello che i sondaggisti chiamano il “margine di errore” (ossia entro limiti che non consentono di pronosticare un sicuro vincitore), ma Obama andava inesorabilmente avanzando tanto a livello nazionale, quanto – cosa ancor più importante – in tutti quegli Stati “in bilico” (l’Ohio, soprattutto) nei quali, in virtù d’un arcaico sistema di voto, il 6 novembre prossimo si deciderà la decisiva battaglia dei collegi elettorali.

A Denver, Barack Obama aveva in canna il proverbiale colpo di grazia. Ma quel colpo – qui gli amanti delle metafore si dividono – o se l’è sparato nel piede, o non l’ha sparato del tutto. A fronte d’un Mitt Romney assai frizzante e piuttosto spudoratamente intento a vendere una versione “moderata” di se medesimo, l’esibizione del presidente uscente (e più che mai apparso tale) era stata tanto fiacca e svogliata che anche politologi tutti d’un pezzo avevano finito per ipotizzare motivi d’ordine fisico (che sia stato per l’altitudine?) o psicologico (che abbia, per qualche ragione, deciso di non farsi rieleggere?). “Obama mi ha chiesto soldi per la sua campagna – aveva amaramente commentato Bill Maher, gran di maestro di satira politica, dopo il dibattito – e io gli ho dato un milione. Mi par di capire che, quei soldi, il presidente li ha spesi tutti in spinelli…”.

Personalmente, io credo che la caduta di Obama sia stata il risultato d’una combinazione di diversi fattori: un eccesso di sicurezza, il desiderio d’apparire “presidenziale” di fronte a un rivale costretto ad attaccare e – paradossalmente – un eccesso di personale intelligenza in contrasto con le più immediate esigenze della propaganda politica. Sebbene sia un oratore capace di memorabili ed emozionanti discorsi, Obama non è, infatti, mai stato un “animale da dibattito”. Troppo intellettuale, troppo propenso a cogliere la complessità dei problemi, troppo “accademico” e distante, troppo riluttante a concedersi all’imperiosa necessità dei “sound-bites”, i “morsi sonori”, le battute ad effetto (menzogne, il più delle volte, o mezze verità) che sono il sale d’ogni confronto elettorale.

Se incerte e opinabili sono state le cause di tanto fiasco, tuttavia, evidentissimi (e puntualmente confermati dai sondaggi post-dibattito) ne sono stati gli effetti. Obama ha cominciato a scendere e Romney – trasformatosi da insipido sfidante in vincitore per cappotto del primo confronto televisivo – ha cominciato a salire. Martedì notte, il presidente è, probabilmente, riuscito a fermare l’emorragia. Si è riconciliato, se vogliamo, con l’intrinseca stupidità della politica e con le regole del gioco elettorale. Ha riscoperto il valore del “sound-bites”, ha vinto, si è rialzato e ha ricominciato a camminare.

In direzione della vittoria? Questo è tutto da vedere (in simili chiari di luna economici, nessun presidente è mai stato rieletto). Di certo ha ricominciato a camminare in direzione dell’Ohio, lo Stato dove un molto ristretto numero di elettori indecisi ha nelle sue mani le chiavi del collegio elettorale che – tutti ne sono convinti – deciderà a chi toccherà, nei prossimi quattro anni, governare l’America e il mondo. “Potessi rinascere – ha scritto di recente Gail Collins, sul New York Times – vorrei essere una elettrice indecisa dell’Ohio”. Difficile darle torto…  

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