Chiedo un po’ scusa… il post odierno sarà autoreferenziale. Non è esattamente una questione di stile, parlarsi addosso, ma cercherò di rendere il discorso lo stesso interessante a lato delle derive egocentriche.

L’occasione me la fornisce un suggerimento fra le righe arrivato in un commento al mio post precedente. Chiudeva così:“Apprezzo meno la sintassi eccessivamente circonvoluta che come unico risultato ottiene di allontanare chi più avrebbe bisogno di leggere la tua bloggata. O forse è intenzionale restringere la cerchia dei tuoi lettori a chi come noi ha il totale dominio su congiuntivi e anacoluti?”. (Ovviamente si parla della mia scrittura). In linea generale condivido il concetto espresso: non di rado anche io noto come certe argomentazioni in luoghi di divulgazione non per addetti ai lavori, il cui scopo sia aprire la mente della gente su qualche aspetto a sfondo sociale (tipo, che ne so, certi ammirevoli interventi sui quotidiani), vengano affrontate con una sottigliezza e una intelligenza che, di per sé stesse, obbligano il loro artefice a adottare una scrittura aderente ai labirinti delle sue riflessioni. Labirinti: perché? Perché se è intellettualmente onesto tenderà a inglobare tutti i rivoli del percorso che fa la “verità” (per chi vuole, senza virgolette), notoriamente difficilissima da raggiungere. E così facendo allontanerà chi dovrebbe essere illuminato (poiché troppo pigro o impreparato a cogliere le sottigliezze), finendo per parlare a chi in questo intrico di rivoli ci è già finito da tempo per conto suo. Ovvero: non “servirà” a niente.

E’ una riflessione appropriata. Soprattutto in un luogo come questo. C’è una disperante inutilità, in effetti, in certi bellissimi ragionamenti che tutti dovrebbero leggere per contribuire a migliorare il contesto sociale. E allora ci si può magari soffermare sulla vanità dello scrivente, ad esempio (l’ambito in cui, indirettamente, venivo tirato dentro con gentilezza nel commento): è meglio avere il piglio di chi desidera comunque far qualcosa di bello, profondo, onesto, preciso, e quindi inevitabilmente e vanitosamente complicato, o è meglio avere il dono della semplicità divulgativa di un Alberoni (primo nome che mi viene in mente), che la maggior parte della gente poi deride per le apparenti banalità? Le quali, a detta dei derisori stessi, di cui non faccio parte, chiunque potrebbe partorire? (A proposito: un giorno lessi non so più dove, o forse qualcuno che lo conosce mi disse, ora non ricordo bene, che il signor Alberoni è in realtà una persona di davvero vasta cultura…)

Purtroppo per questa cosa non ho risposte. So solo che la vanità deve essere dell’artista. Del giornalista non saprei. Eppure, al di là del bello, che è di competenza dell’artista, al giornalista-saggista che ragiona e che suggerisce riflessioni dovrebbe competere l’onestà intellettuale, la quale obbliga in ogni caso a scegliere i sentieri tortuosi (siti nello stesso luogo dei rivoli) della difficilissima “verità” da raggiungere.

E’ ben spiegato però, nella presentazione che descrive il mio blog, che il mio intento, qua, nella terza pagina della cultura, è di tipo artistico, ovvero di scrivere qualcosa che provi ad avere vago valore letterario costruendolo intorno a una canzone del mio gruppo: così che questa sia la discreta e silenziosa protagonista. E se mi imbatto in argomenti a carattere sociale è per caso più che per volontà, senza la diretta intenzione di voler aprire la mente a nessuno (il capitoletto sulla musica in internet mi ha un po’ distolto facendomi allungare eccessivamente, lo so, ma purtroppo ho letto così tante cose deludenti nelle varie repliche, che mi sono sentito costretto, di volta in volta, a cercare di raddrizzare una piega evidentemente non raddrizzabile).

E’ chiaro: desidererei quanto più possibile essere letto e apprezzato da tutti (non mi interessa affatto l’attitudine elitaria), ma non riesco a sganciarmi dal mio modo di scrivere, che, in effetti, si costella di anacoluti e congiuntivi e altro senza voler “servire” a nulla. In fondo è un qualcosa che ha a che fare con la mia idea di letteratura: il suo potere incantatore, la sua smania di una forma strutturata e attraente, la sua capacità di creare un addensamento fascinoso di parole intorno a un punto nevralgico più vicino al niente che alle cosiddette idee (il testo dei Marlene che presento oggi ne è un esempio). Non ne sono né fiero né intristito: è semplicemente così (ma mi basta una sola persona che voglia riconoscere nei miei scritti un effetto incantatore per ritrovarmi nel grembo accogliente di una giornata di colpo fattasi radiosa).

Forse perché non posso, non voglio, non so abdicare a ciò che amo fare: sono anni e dischi che il nostro gruppo scontenta sempre qualcuno di nuovo, ma noi non possiamo far altro che tentare di dare sempre il meglio di noi stessi senza accomodamenti e compiacenze, né verso il presunto contesto pop-commerciale (non lo disdegneremmo per nulla, anzi!, a patto che fosse esso stesso a comprendere noi e non viceversa), né verso il petulante e spesso fedifrago mondo alternative. Non sono un opinion leader (Dio me ne scampi), sono uno che pretende di fare l’artista al meglio delle sue possibilità. Quali che siano.

E poi, a dire il vero, che Fioritodaccòsaggeseccetera siano dei balordi è abbastanza intuitivo per chiunque: non voglio aver bisogno di piacere a qualcheduno in più decidendo di dedicare un post a figuri simil (l’ultimo mio era incentrato sulla canzone “L’idiota”, non su coloro che, come l’umorismo russo degli oppressi ai tempi del regime staliniano ben diceva, verranno seppelliti da una risata… Vi suggerisco un libro assai bello al riguardo: “A Mosca, a Mosca!” di Serena Vitale. Ed. Mondadori). Preferisco, con calma e pazienza, convincere quanta più gente possibile che i Marlene Kuntz esistono e sono artisticamente apprezzabili. Anche, al limite, grazie alla assai rischiosa attitudine ai congiuntivi e agli anacoluti.

Ps1: lo so da me: sono un cantante-autore di testi, non un letterato.

Ps2: faccio ancora parte di quelli che leggono con molta più soddisfazione i quotidiani di carta.

Il Vortice

L’impeto degli eventi sempre più ha gonfiato i suoi muscoli lavorando sui millimetri della mia acquiescenza complice e raggiungendo anfratti inesplorati e nascosti, avviluppandomi nella sua tensione centripeta e sparpagliandomi con la sua occasionale necessità centrifuga

testo: Cristiano Godano
musica: Cristiano Godano, Luca Bergia, Riccardo Tesio
dall’album ‘Fingendo la poesia’ 
(C) 2004 EMI Music Italy s.r.l


 

Articolo Precedente

In arrivo “Dio c’è” il nuovo album dei Numero6

next
Articolo Successivo

Movida naufragata

next