Il mondo è bello perché vario: ciò che per molti rappresenta uno spreco di risorse pubbliche per altri (quelli con le giuste relazioni politiche) può rappresentare invece una fonte di reddito e ciò che provoca in tanti reazioni indignate, in altrettanti o forse più, magari in modo inconfessabile, genera più che altro… invidia.

Se non riconsideriamo gli incentivi reali della politica per come agiscono e non per come dovrebbero agire in un mondo perfetto, non sarà facile moralizzare la vita pubblica italiana e gli scandali di cui veniamo a conoscenza ogni giorno non invertiranno mai il loro trend.

Il punto è che la classe politica italiana viene incentivata troppo attraverso compensi in denaro, in natura, status symbol e tanti benefit e privilegi auto-assegnati e consolidati, tanto da fare concorrenza sleale alla legittima ricerca di quell’ascesa economica e sociale che normalmente si dovrebbe ricercare attraverso il lavoro, le professioni e l’impresa. Attraverso quell’ascensore sociale che dovrebbe tornare ad essere lo studio universitario.

Se un politico non si preoccupa di mandare i propri figli nelle migliori università, dopo aver magari trasmesso e stimolato una sana curiosità per la conoscenza e per il lavoro, e lo instrada invece alla carriera politica, c’è qualcosa che non va.

Quando si accedeva alla rappresentanza politica -attiva e passiva- per censo era più chiaro che un incarico politico rappresentava un onore ed un servizio, non certo un modo per campare bene! I più smaliziati potevano al massimo perseguire, in conflitto di interesse, vantaggi personali o corporativi, ma non potevano puntare certo ad una rendita vitalizia finanziabile più efficacemente che attraverso un programma di accumulo di capitale finanziario o previdenziale di quelli che ci propongono in banca.

Già, perché dove il consenso si può acquistare sul mercato, come in Sicilia, se non ci fosse un reato di mezzo in questi tempi di campagna elettorale per il rinnovo dell’Ars, si potrebbe andare in banca e spiegare che comprando un tot numero di voti di un certo partito o coalizione si potrebbe puntare, con un rischio accettabile, al reddito di un “deputato” regionale il cui stipendio è agganciato a quello dei senatori. E al reddito della legislatura segue poi un ricco vitalizio. Del resto tutto il personale regionale gode di pensioni superiori all’ultimo stipendio percepito…

Come rimediare allora a questo andazzo che distorce l’allocazione delle intelligenze dal settore produttivo a quello più parassitario della politica per come la conosciamo oggi?

Con il suffragio universale, al fine di garantire a tutti l’elettorato passivo, si è riconosciuto ai politici un compenso che garantisse dignità e decoro al ruolo ricoperto. Principio sacrosanto, ma non potrebbe essere perseguito in altro modo, riconoscendo ad esempio, per la durata del mandato, lo stesso reddito dichiarato ex-ante assieme al rimborso documentato di tutte le spese funzionali al mandato? Per gli eletti titolari di elevati redditi sarebbe giusto che limitassero al massimo ai soli rimborsi di spese documentate il loro costo, a riprova che quello politico è un onore ed un servizio e giammai un modo per campare bene.

E per la campagna elettorale? La recente competizione elettorale con l’affermarsi di nuovi soggetti politici sta dimostrando che, anche grazie alle tecnologie digitali, l’incomprimibile costo della politica di craxiana memoria, può essere invece molto compresso senza inconvenienti, anzi, in termini di consenso raccolto.

Quindi, più che pesare sul bilancio pubblico, le campagne elettorali dovrebbero essere finanziate solo dagli attivisti e dai simpatizzanti in modo peraltro trasparente. Del resto, tra gli oneri deducibili, la casta ha previsto a questo scopo l’incredibile incentivo del limite di € 100.000!

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