Vorrei raccontarvi una favola, quella delle 5 riforme. C‘era una volta, in sanità, una riforma che aveva stabilito un determinato rapporto tra il diritto alla salute e le risorse: se aumentavano le spese per i diritti sarebbero aumentate le risorse (1978). Ben presto ci si rese conto che le spese continuavano a crescere mentre le risorse continuavano a calare. Si decise allora di fare una riforma per correggere la prima, puntando tutto sulle aziende, cioè su una migliore gestione dei costi in modo da contenere le spese (1992). Ma anche questa riforma si rivelò insufficiente, i risultati, ma soprattutto i tanti problemi che sorsero, non compensarono né la crescita dei costi e meno che mai la restrizione delle risorse per non parlare degli abusi legati alla lottizzazione delle poltrone. Si decise quindi di fare una terza riforma per tentare di modificare quelle precedenti e razionalizzare il sistema sanitario, ma anche questa soluzione si rivelò inadeguata (1999). Non sapendo dove sbattere la testa si mise mano a una quarta riforma per correggere le prime due, questa volta puntando tutto, ma proprio tutto, sulle Regioni, convinti che responsabilizzarle direttamente sulla spesa sanitaria avrebbe indotto un cambiamento, ma le cose furono più complicate del previsto (2001, titolo V della Costituzione). Non ci volle molto a capire che le Regioni erano sprovvedute e inesperte e in qualche caso persino corrotte. Prigioniere della loro spesa cominciarono a chiedere sempre più soldi, disposte a cedere in cambio pezzi della loro sovranità. Si inventarono ogni sorta di patto e di intesa che regolarmente andava a finire male e impantanate nei loro debiti cominciarono a tassare i propri cittadini. Disperati sotto una gragnuola di misure urgenti per il contenimento della spesa, a qualcuno venne in mente una quinta riforma, il “federalismo fiscale all’italiana”. in molti erano convinti che standardizzando i costi si sarebbero potuti standardizzare i diritti. Un’idea balzana e sbagliata destinata a produrre solo corruzione.

Poi un bel giorno arrivò un mago, inespressivo, compassato, con una accetta magica, la spending review, che con un sol colpo ben assestato, cancellò tutte le riforme fatte in questi trenta anni. Dopo ben 5 riforme cominciò la prima vera controriforma della sanità pubblica. Sembrò così che i diritti fossero incompatibili con le risorse, per cui chi aveva quattrini aveva diritti chi non aveva quattrini non ne aveva. A questo punto… piano piano… nei ben pensanti sempre più attoniti e frastornati cominciò a farsi strada un pensiero: e se facessimo una riforma contro la controriforma? Come d’improvviso vennero fuori mini riforme, riforme finte che con la scusa dell’urgenza copiavano norme già esistenti, (decreto Balduzzi) proposte per togliere alle Regioni i loro poteri sulla sanità. Ma in questo gran polverone, (il “riformista che non c’è” vedi post precedente) rendeva tutto maledettamente difficile. Una domenica pomeriggio all’inizio dell’autunno, invitato all’inaugurazione di un congresso di chirurgia un vecchio saggio, un vero salvatore della patria, (il presidente Napolitano) un po’ curvo sotto il peso degli anni, pronunciò con semplicità poche parole: vi è un conflitto tra diritti e risorse; siccome non bisogna risolverlo a scapito dei diritti necessariamente si deve porre mano ad un cambiamento che li renda entrambi possibili. Nacque la “compossibilità” (vedi post precedente).

Il vecchio saggio, non parlò di riforma ma lasciò intendere che quello che contava non era riformare la sanità come si era fatto in tutti questi anni ma cambiarla come avremmo dovuto fare fin dall’inizio di questa storia. Da allora si comprese che le riforme che non cambiano niente non sono riforme e che era arrivato il momento di voltare pagina.

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