E’ bello sentire da Lucia Uva, una donna che non sa ancora chi e cosa abbia ammazzato suo fratello dopo che nella notte del 14 giugno 2008 è stato portato via dai carabinieri, che crede ancora nella giustizia: “c’è, basta applicarla“. Ed è ancora più bello vedere il suo viso rigato dalle lacrime e invaso da un sorriso alla fine della proiezione del documentario sulla morte di suo fratello, “Nei secoli fedele“, che era un’anteprima anche per lei. Non tutti i familiari di Giuseppe ce l’hanno fatta a reggere la proiezione, e c’è chi è uscito subito dalla sala. Lei invece era lì, in prima fila, a ripercorrere i quattro anni di calvario, dalla riesumazione del cadavere “a quella vita buttata via, la famiglia, i figli“, per arrivare a un risultato che a molti potrebbe sembrare deludente, ma che in questo caso è una prima, piccola, vittoria: il processo è stato azzerato.

Mi sono chiesta perché siano quasi sempre le donne a portare avanti la battaglia per la verità e la giustizia per il proprio familiare morto nelle mani dello stato. Patrizia, Ilaria, Lucia. E ce ne sono tante altre. L’ho chiesto anche a Fabio Anselmo, ormai l’avvocato simbolo dei casi di tortura di stato. Lui mi ha risposto che sono più brave, più determinate. Portare avanti una battaglia contro lo Stato non è facile, anche perché devi essere pronto a subire tu, familiare della vittima, un processo: forse c’era qualcosa che non andava in quella famiglia? E la vittima, sarà un drogato, o forse un ubriacone, oppure un matto? Lucia ha capito proprio così che forse suo fratello era stato ammazzato dalle botte date dai carabinieri, e non per una dose sbagliata data nell’ospedale di Varese, quando ha visto il processo Aldrovandi in tv. “Il poliziotto diceva che il ragazzo, Federico, sembrava matto: saltava sulla macchina, sbatteva da tutte le parti. Erano proprio le stesse cose che dicevano di Giuseppe. Ho tirato un urlo: forse l’hanno ammazzato loro!!!“. 

Avere la consapevolezza che forse tuo fratello, tuo figlio, è stato torturato e ammazzato dallo Stato è solo il primo passo di un cammino lunghissimo, difficile, e che non sai se arriverà a una conclusione. Patrizia Moretti, mamma di Federico Aldrovandi, è la prima ad aver ottenuto giustizia: i 4 poliziotti che hanno ammazzato suo figlio sono stati condannati. E lei pochi giorni fa ha incontrato il Ministro Cancellieri, per chiederle di togliere la divisa a quei poliziotti, che sono ancora in servizio, e per dotare l’Italia di una legge contro la tortura, come chiedono anche più di 100.000 cittadini, e che aiuterebbe a scalfire quel muro di omertà che gli apparati dello Stato usano per proteggersi.

Anche Lucia spera di arrivare a quel punto, ma come Ilaria ha un problema con chi dovrebbe aiutarla a ottenere giustizia: il magistrato inquirente. Il rischio infatti è che il pm Abate, che è quello che non si è mai chiesto cosa fosse successo in caserma, che non ha mai voluto sentire l’amico di Giuseppe Uva che quella notte era con lui e che dalla caserma chiamò l’ambulanza dicendo “stanno massacrando un ragazzo“, proprio lui, potrebbe riprendere in mano le indagini. Ora solo il Procuratore generale di Milano può togliere il caso di Giuseppe Uva dalle mani del pm Abate. Farlo sarebbe premiare la convinzione di Lucia, esempio per tutti noi, che la giustizia “c’è: basta applicarla“.

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