Un anno può bastare per sentirsi parte o meno parte di un luogo. O no. Poche città al mondo, dopo averle lasciate, ti lasciano un senso controverso e angosciante, un senso di Odi et Amo. Lasciare un giorno Londra dopo un anno è come scendere da un treno che avresti potuto non lasciare mai.

Scegli tu se scendere o meno da un cavallo impazzito di razza, forte e veloce, di quelli con cui potresti andare lontano. Molto lontano. La gente resta in sella perché quell’ebrezza è leggera, in un secondo ti porta via, ma se sai destreggiarti la corsa non può finire. Non riesci a smettere, perché puoi anche accontentarti di fare il cameriere vivendo bene e guadagnando mille sterline. Con le mance ti togli anche qualche vizio, nella città del superfluo, del vintage, dei mercatini d’arte e dei cibi ricercati.

In una città come Londra non sei nessuno ma hai l’occasione di poter credere, per la prima volta nella tua vita, che puoi diventare qualcuno. È vero che ci riesci, prima o poi, come è vero anche che se hai certe aspirazioni ci rimani a vita, per spirito di sacrificio, per ottusità, per fortuna, perché ti fai una cerchia di amici o ti innamori. Londra è un’isola che divide: ci sono gli entusiasti e ci sono quelli che la maledicono. Londra ti può ricoprire d’oro o di melma. Lo ammonisce una placca che commemora Oscar Wilde, dalle parti di Charing Cross: “Siamo tutti nati nel fango, ma alcuni di noi guardano alle stelle”. Londra ti può celebrare in ogni modo, ma può distruggerti la dignità, il coraggio con cui sei partito all’inizio.

Ho sentito sempre forte il sentimento d’appartenenza a un territorio, soprattutto dopo aver vissuto per almeno un anno in un posto. Invece a Londra ho sempre avvertito un senso di distacco composto, un rispetto verso una modernità e un’efficienza brillante e disarmante. Un senso di meraviglia dovuto a un’ecletticità stimolante e aggressiva allo stesso tempo. Ma sempre qualcosa di effimero, un quid che mi sfuggiva, che lasciava che apprezzassi certe sue aperture ed eclissi, ma che non mi spingeva ad andare oltre.

E lo sai quando è amore a prima vista con un luogo, non ci vogliono anni per capirlo, né cercare di convivere a tutti i costi in uno spazio di cui hai una considerazione importante, ma non ti attrae. Non ti fa neanche piangere, quando chiudi le porte. Solo un po’ gli occhi ti brillano al salutare quelle persone (poche ma buone) che hanno fatto parte di un’esperienza irripetibile e propizia. Di un posto di cui hai odiato pioggia e vento, calche umane e di smog, distanze siderali e ipocrite formalità, ma di cui hai amato la libertà, il potenziale, la meritocrazia e la flessibilità. Anche, le circostanze di un destino che puoi costruire, che ti si può rivoltare contro, o che decidi di lasciare perché semplicemente non è il fazzoletto di mondo a cui appartieni o vuoi appartenere. E allora qui forse vale più che mai il detto di Pavese, che “un posto ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via”.

Sono tornata in Italia che la prima cosa che ho percepito è stata che il peso delle monete in euro è infinitamente meno di quello dei pound; che mi metto in fila da sola; che lamento l’attesa della burocrazia italiana e cammino a passo sostenuto, sempre di fretta, sempre di corsa. Ma sempre avanti e con più sicurezze, che Londra ti fa le spalle grandi.

Laura Fois, 26 anni, scrive per L’Universale

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