Spiace doverlo constatare, ma per la riforma elettorale siamo ormai fuori tempo massimo. Il fatto che i rappresentanti dei partiti in Parlamento dicono che stanno lavorando per una riforma consensuale non cambia questo dato di fatto. Anche l’elettore più distratto avrà capito che nessuno in Parlamento lavora per lui: il metro di misura è la propria convenienza. La spiegazione dello stallo in atto è tutta qui. A pochi mesi dalle elezioni, la cosa, infatti, non dovrebbe stupire. I partiti politici si sentono già in gara, ed ognuno pensa alla sua fondamentale ragione d’essere: la conquista del potere. Per carità, ci sarà pure chi è convinto di lavorare a fin di bene – anche se l’assenza di uno straccio di dibattito serio sui programmi elettorali non promette bene – ma così stanno le cose.

Che non si dovrebbero cambiare le regole del gioco a ridosso della partita non è soltanto una norma di buonsenso. Lo impongono le regole e le buone pratiche raccomandate dalle istituzioni europee ed internazionali. Già in occasione delle elezioni del 2006 gli osservatori elettorali dell’Osce invitati (per la prima volta) a verificare la conformità del voto in Italia con le norme e le migliori pratiche internazionali criticarono il fatto che la nuova legge elettorale era stata adottata meno di quattro mesi prima del voto, e che alcuni ulteriori cambiamenti furono introdotti solo tre mesi prima dall’apertura dei seggi. La raccomandazione conclusiva fu molto chiara: “Il nuovo parlamento dovrebbe cercare un ampio consenso sulle eventuali modifiche alla legislazione elettorale e dovrebbe evitare di apportare modifiche poco prima delle elezioni.

Questa raccomandazione si fonda sulle “regole minime” del diritto elettorale europeo riassunte nel Codice di Buona Condotta Elettorale adottato dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa nel 2003. Tra le condizioni necessarie per garantire l’efficacia dei principi fondamentali della democrazia in Europa (il suffragio universale, l’uguaglianza, la libertà e il segreto del voto) il documento cita la stabilità del diritto elettorale, “al fine di non apparire come oggetto di manipolazioni partitiche”. Il tempo minimo previsto tra l’adozione di una nuova legge elettorale e il voto è un anno.

Al punto in cui ci troviamo, a soli sei mesi dalla fine della legislatura, c’è una sola riforma elettorale che potrebbe essere approvata senza inficiare i principi del diritto elettorale europeo riassunti dal Codice, ed è il ripristino della legge precedente, la legge Mattarella, in quanto sancita da una vasta consultazione popolare: il referendum del 18 aprile 1993. Non ci vorrebbe niente, come ha spiegato bene l’ex-presidente della Corte Costituzionale, Gustavo Zagrebelsky: “Basterebbe una piccola legge composta di due frasi: la legge Calderoli è abrogata; la legge Mattarella è riportata in vigore”

Purtroppo non se ne farà niente, e per un motivo molto semplice: se c’è una sola cosa che accomuna i partiti italiani in tema di riforma elettorale, è il loro odio per il “mattarellum”. Fu, dall’inizio, una legge subita, e si rivelò ben presto molto pericolosa per tutti i capi ed i capetti che controllano i partiti in Italia. Il sistema uninominale avrà anche i suoi difetti, ma ha questo di bello, può anche decapitare i capi. Con il sistema elettorale uninominale “all’inglese” anche un ministro può perdere il suo seggio. E in tempi di grande incertezza politica, economica e dunque anche elettorale, come quelli attuali, può accadere che non esistano più abbastanza “collegi sicuri” per mettere al sicuro dalla sconfitta tutti i capibastone della nostra tentacolare nomenclatura politica.

Va detto, per inciso, che per me il sistema elettorale uninominale porta anche molti altri vantaggi, in particolare quello di responsabilizzare gli eletti, che devono rispondere ai loro elettori del loro operato. Un altro suo pregio è che rafforza la centralità del Parlamento. Ma non voglio inoltrarmi qui in una disputa fuori tempo fra “maggioritaristi” e “proporzionalisti”. Quello che sarebbe servito all’Italia è una legge decente, che avesse garantito sia la rappresentanza che la governabilità — ma in assenza di una classe politica capace di darcela in tempo utile, ci toccherà tenerci il cosiddetto “porcellum“, la legge Calderoli.

Come tutti i maiali, questa legge è migliorabile, dipende da come lo si cucina. Il difetto più vistoso della legge Calderoli è che ha consentito l’elezione (era stato fatto per questo) di un Parlamento di nominati, messi in lista dai capi-partito. A questo difetto ci sarebbe un rimedio molto semplice: senza cambiare la legge, basterebbe che i partiti affidassero la composizione delle loro liste ad elezioni primarie, da tenersi nei singoli collegi della Camera e del Senato, per riconquistarsi buona parte della loro legittimità perduta. Potrebbero anche essere primarie di partito, basta che la procedura sia trasparente e partecipata. E’ il sistema utilizzato dai partiti scandinavi, dove nessuno si lamenta del sistema elettorale con liste bloccate. Ed è quello che Di Pietro ha detto che farà – credo che se sarà di parola ne potrà trarre un enorme vantaggio elettorale.

Il maiale ha, però, un altro difetto, di cui pochi parlano. La legge Calderoli consente ad un candidato di presentarsi in più collegi, lasciandogli la possibilità di optare per quello che più gli conviene – una procedura che può dare luogo ad indecorose trattative a porte chiuse, con scambi di seggi fra fazioni, con il risultato che nemmeno quella lista (imposta dall’alto) appesa nei seggi corrisponde, il più delle volte, agli eletti effettivi. Se i partiti ci promettessero anche di onorare la composizione delle loro liste in ogni località, ad eccezione, forse, del capo-lista e candidato premier, darebbero un’altro segnale importante di rispetto verso il cittadino-elettore. E per fare tornare la speranza che almeno qualcosa cambierà con queste elezioni.

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